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Abbandonando politica linguistica e scuole italiane all’estero, l’Italia rinuncia al suo soft power

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Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo articolo di Silvia Giugni, linguista e glottodidatta, già direttrice del PLIDA della Società Dante Alighieri

La politica linguistica italiana a partire dagli anni ’90 è in costante e irrimediabile declino. Un declino che certamente ha a che vedere con la carenza di risorse economiche in cui si trova lo Stato Italiano, ma anche (e forse soprattutto) con la scarsa consapevolezza che amministratori pubblici (MAECI e MIUR) e governi avvicendatisi hanno dimostrato e dimostrano nei confronti del soft power. Quindi, a differenza degli altri stati europei che hanno aumentato negli ultimi 20 anni gli investimenti nella diffusione e promozione della propria lingua, l’Italia ha ridotto sempre di più le risorse a disposizione della politica linguistica. La riduzione continua degli investimenti ha determinato la chiusura di diverse scuole italiane all’estero, la riduzione degli Istituti Italiani di Cultura (trasformando peraltro quelli rimasti, privati di un budget decoroso, spesso in pure rappresentanze “simboliche”), la riduzione dei posti di lettorato, insegnamento e assistenza linguistica presso le università e le scuole straniere, le azioni di formazione e aggiornamento per gli insegnanti di italiano, ecc.

La chiusura della scuola italiana di Asmara, una scuola storica fondata 120 anni fa, è l’ultimo episodio di questo triste declino. La scuola è stata chiusa a fine agosto dallo Stato eritreo, perché lo Stato italiano aveva ridotto drasticamente il finanziamento alla scuola e aveva cessato di inviare insegnanti madrelingua dall’Italia. Nella vicenda si è particolarmente distinto il nostro governo attuale per la sua incapacità di mediazione con lo Stato eritreo ai fini di trovare una soluzione che permettesse alla scuola di rimanere in attività. Lo stesso presidente Conte si è messo in gioco, ma senza ottenere niente.

D’altra parte, la chiusura della scuola di Asmara non è un evento che possa sorprendere chi segue la “politica linguistica” del governo (e purtroppo anche quella di molti governi che lo hanno preceduto). Le scuole italiane all’estero sono il fondamento su cui storicamente si basa e si incentra la politica linguistica italiana. Aperte a cominciare dal 1862 prima nel bacino del Mediterraneo, poi nelle Americhe e in Europa, oggi sono state gradualmente ridotte a 7 (Addis Abeba, Atene, Barcellona, Istanbul, Madrid, Parigi e Zurigo). Le altre nel corso degli ultimi 20-30 anni sono state chiuse o si sono riconvertite in scuole private (oggi scuole italiane paritarie), finanziate in misura sempre più irrisoria dallo Stato italiano e controllate da esso attraverso il riconoscimento ministeriale del titolo di studio. Con il decreto legge 64 del 2017 e poi con il decreto ministeriale 2051 del 2018 il contributo finanziario alle scuole all’estero (sia le ormai 7 statali rimaste sia le 43 private riconosciute dallo stato e definite dal decreto stesso “paritarie”) è ulteriormente diminuito (inoltre i docenti inviati dall’Italia sono stati ulteriormente ridotti e le supplenze abolite).

Oggi le 7 scuole statali italiane rimaste rischiano la chiusura per mancanza di fondi e per la mancanza di insegnanti madrelingua (e per carenza di strategie didattiche e promozionali).

Le 43 scuole italiane paritarie (ovvero di fatto private ma riconosciute dallo Stato) sparse nel mondo e gestite da enti autonomi ricevono ormai finanziamenti esigui (in moltissimi casi il finanziamento non arriva al 10 per cento dei loro introiti) e devono utilizzare insegnanti quasi tutti reperiti in loco e non facenti parte delle graduatorie ministeriali italiane. A fronte di così poco impegno economico e organizzativo da parte dello stato, le scuole paritarie devono però attenersi rigorosamente e rigidamente a programmi e curricoli della scuola italiana (MIUR) senza nessuna specificità, adattamento o strategie legate all’area in cui operano e ai loro destinatari. Ovvero a fronte di un impegno finanziario minimo e a un’attenzione scarsa alle problematiche educative e didattiche peculiari da parte dell’Italia, le scuole si devono attenere alle rigorose indicazioni ministeriali italiane: una gestione top down da parte dello Stato italiano, senza la possibilità da parte delle scuole di alcuna partecipazione in scelte concertate tra attori e soggetti in campo. La gestione top down è diventata inoltre sempre meno efficiente sia dal punto di vista decisionale che da quello operativo a seguito dell’istituzione della cogestione MAECI-MIUR (sempre decreto legge 64/2017) al posto della precedente gestione del MAECI.

Se le 7 scuole statali rischiano la chiusura, le 43 scuole paritarie (che il MAECI presenta e vanta come scuole italiane rivendicandone meriti e azioni) rischiano di abbandonare la barca e rendersi autonome a tutti gli effetti: venuti a mancare il finanziamento e i docenti dall’Italia, il loro legame con l’Italia, basato meramente sul riconoscimento paritario dei titoli di studio, diventa sempre più debole di fronte al diffondersi nel mondo di scuole internazionali e di titoli di studio internazionali.

La situazione delle scuole all’estero, fulcro della politica linguistica, appare dunque preoccupante, così come appare preoccupante il crescente disimpegno del governo e dello stato italiano in materia di soft power (di cui la politica linguistica è parte fondamentale e imprescindibile). I danni di tale disimpegno si leggono in molti campi e non sono estranei alla perdita di importanza politica dell’Italia a livello internazionale. Inoltre uno degli effetti immediati più gravi e preoccupanti è la perdita di attrazione della nostra validissima istruzione superiore all’estero (bassissimo numero di studenti stranieri nelle nostre università). Va infine sottolineato che ciò che è mancato fin qui all’approccio ministeriale e politico non è solo il denaro: certamente, come detto, la scarsità di risorse ha portato a certe scelte, o meglio a certe non scelte (benché nei due decenni passati in questo ambito soldi ne siano stati spesi non pochi e male). Esistono infatti diverse iniziative a costo zero o quasi che potrebbero essere applicate con successo per cominciare a progettare un rilancio della promozione e della diffusione dell’italiano (lingua che ha una sua propria fortuna malgrado le politiche linguistiche sciagurate, ma che alla lunga non può vivere solo di quella). Purtroppo quel che è mancato e che sembra manchi è la volontà e una visione strategica e realistica.

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