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Diamoci del tu! Ma anche no. Nel rimprovero di Macron c’è molto più che il rispetto per le istituzioni

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In queste settimane Emmanuel Macron non gode di particolare approvazione in Italia: è andato alla guerra con il leader più popolare del momento, Matteo Salvini, sulla spinosa questione dell’immigrazione e le polemiche hanno riacceso uno spirito campanilistico mai sopito – chissà cosa sarebbe saltato fuori da una sfida al Mondiale al quale gli Azzurri non partecipano.

Non gli riesce di essere sempre simpatico nemmeno in casa, ma lunedì scorso si stava godendo un bagno di folla in occasione delle celebrazioni che ricordano il 18 giugno 1940, quando il generale Charles De Gaulle, dall’esilio londinese dopo la caduta della Francia per mano nazista, chiamava i compatrioti alla resistenza. Strette di mano e sorrisi, fino all’incontro con un giovane sbarbatello che gli si è rivolto con un’espressione molto informale: “Come va, Manu?”. Macron lo ha catechizzato a dovere, ricordandogli di rivolgersi a lui con termini più consoni quali “signor presidente della Repubblica”; o semplicemente “monsieur” (qui il video). Una tirata d’orecchi sacrosanta e non si può non dar ragione a Macron, tralasciando simpatie o antipatie personali. In quel “come va, Manu?” si esprime d’altra parte il codice comunicativo moderno nel quale molte barriere sono saltate perché sono spariti o annebbiati i simboli che alcuni personaggi incarnano: un presidente che rappresenta una nazione, un politico che rappresenta una comunità, un professore che rappresenta un’istituzione, un genitore che rappresenta un modello. I tasselli del domino hanno iniziato a cadere uno dopo l’altro da qualche tempo e se è fin troppo facile trovare nella cattiva educazione la risposta più ovvia, occorre d’altra parte guardare anche più in là.

La politica ha notevolmente degradato i toni con slogan e battute astiose e oltremodo polemiche: ne approfittano di certo i movimenti di pancia, ma anche gli ambienti cosidetti intellettuali che adottano vie magari meno sgrammaticate, ma comunque altrettanto livorose. A ciò si aggiungono le malefatte delle classi dirigenti che invece di rappresentare un potere conferitogli, ne hanno abusato e approfittato, solleticando gli animi più aggressivi e irascibili. Il martellamento di video su Facebook, i messaggi su Twitter e i selfie su Instagram tramite i quali raccontare una bugia (“Sono uno di voi!”) hanno fatto il resto. Perché dunque un ragazzo – o un elettore qualsiasi – non dovrebbe considerare il leader un “amico”, un compagno di banco?

I giovani lo imparano in famiglia: le generazioni più recenti di genitori hanno coltivato il vizio di spacciarsi per amici dei figli, delegando ad altri, tipo ai professori, il compito di insegnargli come riconoscere un adulto seduto di fronte a loro. Situazione alla quale un docente può rispondere provando a stabilire delle regole precise o, purtroppo, trasformandosi a sua volta in un amico e compagno di banco o comunque in una figura che non esprime autorità, ma accondiscendenza e creando un ambiente fertile per chi alza la cresta e tenta di prendere il comando alzando la voce e le mani.

Il tempo ha fatto in modo che atteggiamenti e costumi che contraddistinguevano qualsiasi classe sociale, come il timor di Dio, il levarsi il cappello o il più semplice ringraziamento anche per un minimo gesto di educazione (“Penso che quando non si dice più ‘grazie’ e ‘per favore’ la fine è vicina”, afferma lo sceriffo Bell nel romanzo “Non è un paese per vecchi”, di Cormac McCarthy) diventassero per lo più dei ricordi di galanteria estranei agli adulti, figuriamoci tra i giovani. Recuperarla, questa galanteria non è impossibile, però occorre ammettere inizialmente che non siamo tutti sullo stesso livello: peccato che dirlo ormai sembri un’eresia.

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