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Strage di cristiani: le parole che offuscano non solo il linguaggio, ma anche la memoria delle vittime

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C’è un certo filo rosso che lega l’incendio della cattedrale di Notre Dame all’inizio della Settimana Santa e gli attentati in Sri Lanka nel giorno di Pasqua: non si tratta di un collegamento materiale, di una mano comune, ma di un perverso ragionamento che prova a nascondere una parte dei fatti o, meglio, ad interpretarli secondo una chiave di lettura retorica. Dove vogliono arrivare infatti un Barack Obama o una Hillary Clinton che definiscono i cristiani assassinati da kamikaze islamici a Colombo “Eastern worshippers”, ovvero dei semplici fedeli, quando proprio la Pasqua è una delle celebrazioni essenziali nella liturgia e nella fede cristiana? Chiaro: puntano a non offendere nessuno, ad adottare un linguaggio neutro che tuteli qualsiasi praticante di qualsiasi religione, salvo poi mancare di rispetto alle vittime e ai loro famigliari tacendone un tratto caratterizzante: essere dei cristiani colpiti a morte mentre celebravano il loro essere cristiani.

Gli attentati di domenica sono un ennesimo atto di guerra nei riguardi di una fede religiosa e di quella parte di mondo in cui essa è più radicata, l’Occidente. Tra le storie che sono trapelate a distanza di ore ci sono quella del miliardario danese Andres Holch Povlsen, che ha perso tre figli, del padre di famiglia britannico unico sopravvissuto all’esplosione avvenuta nell’albergo dove alloggiava con la moglie e i due figli, ma anche di una donna nativa dell’isola rientrata per le feste dalla Sicilia, dove risiedeva da vent’anni, e di Nisanga Maydume, appena laureatasi a Londra. Purtroppo non saranno gli ultimi, ma proprio in Occidente il vizio di dimenticarsene presto è diffuso. E reso meno “colpevole” dall’atteggiamento neutro e distaccato di esponenti politici e mediatici di primo piano che con le loro dichiarazioni e i loro commenti aiutano a spegnere il fuoco e a dissipare il fumo che ancora esce dalle chiese o dagli hotel appena sventrati. Una sorta di damnatio memoriae che negli ultimi anni ha riguardato ad esempio i cristiani copti assassinati in Egitto o le comunità cristiane prese di mira in Nigeria.

Da una parte si cela, dall’altra ci si arrovella per assegnarsi il ruolo di colpevoli: un “ce lo meritiamo” collettivo paradossalmente attribuitoci da chi vuole smarcarsene. L’incendio di Notre Dame ha fornito una nuova occasione di piegare il linguaggio al bisogno impellente di camuffare i fatti per quello che sono: il tetto della cattedrale va a fuoco, mettendo a repentaglio un patrimonio culturale – sia materiale che simbolico – e l’operazione è quella di descrivere l’evento come il collasso, la Waterloo dell’idea di nazione (Francesco Merlo su la Repubblica), che erroneamente è sovrapposta a quella di sovranismo, o di approfittare della tragedia dei migranti annegati nel Mediterraneo come una specie di contrappeso e contrappasso (Michela Murgia). Soffermarsi semplicemente a riflettere sull’impatto che i fatti di Parigi e di Colombo possono avere sulle comunità cristiane – e dunque anche occidentali – è a quanto pare un esercizio troppo scontato.

E se a pensar male si fa peccato, ma ogni tanto ci si azzecca, viene da credere che tanto gli Obama quanto i Merlo di questo mondo sperino in cuor loro che tanto il santuario di Sant’Antonio da Padova a Colombo quanto la Notre Dame parigina riaprano presto i battenti come musei: spazi neutri dove le collezioni arrivano e ripartono, senza mettere radici e generare tradizioni, disegnati appositamente per “Arts worshippers”. Così nessuno si offende.

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