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Il caso Rasanen: dove può arrivare in Occidente la deriva contro libertà di parola e di fede

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Assolta la deputata finlandese accusata di incitamento all’odio per aver condiviso un passo della Bibbia. Un esempio emblematico delle ripercussioni giuridiche sulla libertà di parola che deriverebbero dal Ddl Zan…

Pochi giorni fa, il 30 marzo, è arrivata una sentenza piuttosto importante, ma che ha ricevuto ben poca attenzione dalla stampa italiana, con la quale il tribunale distrettuale di Helsinki ha assolto il vescovo Juhana Pohjola della Diocesi della Missione Evangelica Luterana di Finlandia (ELMDF) e il deputato finlandese – ed ex ministro degli interni – Päivi Räsänen da tutte le accuse. Certo, si potrà dire che di questi tempi non manchino i contenuti con cui riempire le colonne dei giornali, e che una sentenza di una corte finlandese possa in ogni caso ricoprire un interesse limitato per il pubblico italiano. Già, però credo che in molti, non appena fornirò alcuni dettagli sulla vicenda, ricorderanno chiaramente come l’incriminazione dei due imputati avesse ricevuto ben altra copertura anche sulla stampa patria. I due, in effetti, erano stati accusati di “crimini d’odio”, nello specifico per aver proposto e articolato, in varie forme e modalità, quello che la loro difesa ha definito “l’insegnamento storico cristiano sulla sessualità umana”.

Probabilmente adesso in molti, man mano che inizieremo a chiarire di cosa stiamo parlando, vi ricorderete del perché si era parlato molto della vicenda, quando il pubblico ministero di Helsinki aveva chiesto la condanna dei due: eravamo nel 2021 e qui in Italia ci dividevamo sul Ddl Zan e, soprattutto, sulle sue ripercussioni giuridiche sulla libertà di parola. In quel contesto, che adesso può apparire lontano soltanto perché l’argomento è uscito momentaneamente dai radar, la richiesta di condanna di due figure di spicco quali un vescovo e un deputato era stata accolta con grande soddisfazione da una parte dell’opinione pubblica italiana, evidentemente ansiosa di poter applicare anche nel nostro Paese un rigore paragonabile nei confronti dei “discorsi d’odio”, mentre un’altra parte la citava con comprensibile preoccupazione come esempio lampante delle possibili derive di una legislazione tesa a regolare con tanta precisione cosa sia lecito o meno dire.

Ma vediamo, nello specifico, quali fossero le accuse. La dottoressa Räsänen, figura di spicco della politica finlandese degli ultimi 20 anni, era stata accusata di incitamento all’odio per aver scritto un piccolo opuscolo nel 2004, nel quale illustrava l’insegnamento tradizionale della Chiesa luterana sulla sessualità umana, nel contesto dell’acceso dibattito allora in corso in Finlandia sulla legalizzazione del matrimonio omosessuale. All’epoca, la Räsänen era da poco stata eletta leader del piccolo partito centrista dei Democratici Cristiani, in quel momento all’opposizione, e ne aveva espresso la posizione, basandola essenzialmente sulle tesi classiche del cristianesimo nordico. Negli anni successivi, la Räsänen avrebbe anche ricoperto incarichi di governo, servendo come ministro degli interni dal 2011 al 2015, e la questione sembrava essere passata quasi nel dimenticatoio della politica, come si suol dire.

Salvo tornare improvvisamente di attualità negli ultimi anni, quando si è creata una scissione nella Chiesa Evangelica Luterana di Finlandia, che è una “Chiesa nazionale” riconosciuta dallo stato e ad esso legata in modo non dipendente ma comunque rilevante. Alcuni esponenti più conservatori, scontenti dei crescenti compromessi sul tema della sessualità, quali la partecipazione di una delegazione ufficiale alla parata del Pride del 2019, hanno deciso di abbandonarla per fondare la precedentemente citata Missione Evangelica Luterana di Finlandia. Si tratta in effetti di una realtà assolutamente marginale – circa 2 mila membri, contro i quasi 3,7 milioni della Chiesa nazionale – che ha però attirato su di sé una crescente ostilità da parte di una parte importante dell’opinione pubblica e della politica, in un primo momento, e poi anche della magistratura.

Il vescovo Pohjola, che ne è uno dei principali esponenti, è stato accusato per via del suo ruolo di editore del libello in questione, recentemente ridiffuso proprio dalla ELMDF, come parte della “campagna di sensibilizzazione” portata avanti dalla stessa. La sua posizione era in effetti meno grave di quella della dottoressa Räsänen, e le richieste dell’accusa per lui erano di una multa pari a 60 giorni del proprio reddito personale – la Finlandia adotta un approccio progressivo in base al reddito sulle multe e le sanzioni – oltre a 10 mila euro ai danni della Chiesa per aver pubblicato e diffuso il materiale che costituirebbe incitamento all’odio.

Ben più grave era la posizione della co-imputata, per la quale era stato chiesto il massimo della pena: una sanzione pari a 120 giorni di reddito. In effetti per lei c’erano anche altri due capi d’accusa per hate speech nell’ambito di dichiarazioni pubbliche su mezzi di comunicazione di massa sulla sessualità. In particolare, galeotto era stato il social media. Tutto era iniziato da un post su Facebook del 2019, in cui la deputata, che è un membro attivo della Chiesa nazionale ed è sposata a un pastore della stessa, ne criticava la già citata partecipazione al Pride. Il post (riportato nell’immagine in lingua originale) era invero piuttosto lapidario e lasciava ben poco spazio all’interpretazione: “come può quella che è il fondamento dottrinale della Chiesa, la Bibbia, essere compatibile con l’elevazione della vergogna e del peccato a motivo di orgoglio?”. Il post era poi accompagnato da una foto di una pagina di una Bibbia, in cui si leggeva un versetto dell’Epistola ai romani (1:24,27), che definisce le relazioni sessuali tra persone dello stesso sesso come “impure”, “infami” e “contro natura”.

Si tratta indubbiamente di una posizione netta, che può suscitare il comprensibile risentimento di molte persone. Resta però da vedere se si tratti di una dichiarazione che incita all’odio, come immediatamente ipotizzato dalla procura di Helsinki. Un paio di mesi dopo, quando già si sapeva che un’indagine era stata avviata, la Räsänen pubblicò un’altra volta sui social, stavolta su Twitter: un breve tweet del 13 agosto, in cui diceva di non essere minimamente preoccupata per se stessa, ma di esserlo al pensiero che “citare la Bibbia possa essere considerato anche solo lievemente illegale”, e di sperare che questo non “porterà i cristiani ad autocensurarsi”.

Si era immediatamente alzato un polverone, data la grande visibilità della deputata. L’indagine delle autorità giudiziarie di Helsinki si era tuttavia conclusa senza che venissero evidenziati fatti aventi rilevanza penale, ma il procuratore generale di Finlandia Raija Toiviainen ha fatto della questione una battaglia di rilevanza nazionale. Nell’aprile scorso, l’annuncio dell’incriminazione, sulla base della legge che punisce i crimini di guerra e contro l’umanità, della quale si prospettava un’applicazione al caso in questione, in quanto gli imputati avrebbero apertamente incitato alla violenza nei confronti di una minoranza. Il caso è immediatamente divenuto oggetto di interesse a livello internazionale: in un primo momento, si sono mosse soprattutto le associazioni evangeliche, sulla spinta della presa di posizione ufficiale della Chiesa nazionale di Finlandia, che ha espresso importante preoccupazione per le potenziali ingerenze della magistratura e della politica non più solo nelle sue pubbliche espressioni, ma anche nelle sue basi teologiche.

Il processo ha avuto da subito delle implicazioni per la libertà religiosa e il suo futuro in Finlandia, nonché per quello della connessa libertà di parola: implicazioni che non possono che essere state evidenti per tutti gli osservatori, anche se, all’atto pratico, si sono levate soltanto voci conservatrici e liberali per esprimere preoccupazione – anche in Italia. Dal pur variegato settore dei progressisti non sono arrivati particolari commenti, se non in risposta a quanto detto in proposito dall’altro schieramento, più che altro nel tentativo di negare il parallelo tra quanto accadeva in Finlandia e le prospettive che si sarebbero aperte con l’approvazione della legge Zan nella sua forma integrale.

Se ricordate, in quei mesi c’erano diverse posizioni dubbiose sul disegno di legge in questione, alcune basate su posizioni ideologiche intrinseche ai temi della stessa, altre nascenti dal timore che si andasse a ledere fonti basilari di libertà di parola e si andasse di fatto a rendere la magistratura decisore ultimo di cosa sia lecito dire e cosa no, su quali argomenti si possano esprimere pensieri dissenzienti e su quali no.

In effetti, è esattamente ciò che è successo ad Helsinki, dove, nel corso del processo, l’accusa si è concentrata su uno scrupoloso esame delle singole convinzioni dottrinali degli imputati, convinzioni che fanno parte del loro personale credo religioso. La conseguenza di tale approccio è stata, secondo le dichiarazioni rilasciate dal vescovo Pohjola al termine della lettura della sentenza, che si è assistito a “una confusione di argomentazioni giuridiche e teologiche”, che è sembrata inedita e preoccupantemente fuori luogo in un tribunale civile a molti commentatori. In particolare, grande interesse e preoccupazione ha riscosso negli Stati Uniti, dove un gruppo di dieci accademici appartenenti alle più prestigiose università del Paese quali Harvard, Yale e Stanford e composto da cristiani, ebrei e persone non religiose, ha inoltrato una petizione alla Commissione per la libertà di religione nel mondo. A detta dei firmatari, un procedimento giudiziario del genere desta particolare preoccupazione, poiché rappresenta potenzialmente il primo passo verso “aperti atti di persecuzione” basati sul credo religioso, e ricorda in modo sinistro il tipo di procedimenti penali che hanno luogo nei Paesi che applicano un più o meno duro regime di ateismo di stato – quali la Cina, ad esempio.

Mentre il processo andava avanti, poi, cinque senatori repubblicani hanno sottoscritto un documento indirizzato a Rashad Hussain, il rappresentante americano per la libertà di religione nel mondo, in cui sostenevano che, a prescindere dal fatto che i giudici finlandesi dovessero alla fine ritenere ammissibili o meno le idee religiose degli imputati, il fatto stesso che dei rappresentanti del ramo giudiziario di una nazione democratica si esprimano su tali argomenti rappresenti un precedente estremamente pericoloso – ancor di più se si pensa all’alto profilo degli imputati.

Alla fine del processo, Pohjola ha dichiarato che ritiene la sentenza “una vittoria per la libertà di parola e di religione in Finlandia e non solo”. Il punto è certamente di fondamentale importanza: noi viviamo indubbiamente in un’epoca in cui l’influenza della religione sulle società occidentali sta diminuendo, e questo comporta inevitabilmente che si guardi con occhio diverso alle istituzioni e alle idee che le religioni ispirano. Questo non dovrebbe però significare rendere la professione o perfino la semplice discussione di tali idee passibile non solo di condanna, ma neppure di revisione da parte di alcuna autorità statale. Se si fa un giro in quella rappresentazione moderna di un quadro di Hyeronimus Bosch che è Twitter, si avrà modo di vedere ogni sorta di reazioni sguaiate a questa sentenza, da una parte come dall’altra, su cui spicca un notevole livore verso quella che viene da molti vissuta come una “vittoria della reazione” e “un passo indietro nel campo dei diritti”.

Ciò che credo sia importante sottolineare, innanzitutto, è che qui non siamo di fronte ad un caso come quello della Westboro Baptist Church, piccola realtà americana che si è segnalata per il diretto incitamento a compiere violenze fisiche su ogni sorta di categoria, dagli ebrei ai soldati e ai riservisti statunitensi. Qui si tratta di un vero e autentico processo alle idee. È indubbio che il procuratore generale abbia cercato di criminalizzare l’insegnamento tradizionale cristiano sulla sessualità umana, in quanto il processo si è svolto esattamente e unicamente su questo tema. Comunque la si pensi sull’argomento, mettere sotto accusa delle persone per aver espresso le loro idee in modo coerente con la loro fede e pacifico, dovrebbe far sorgere quantomeno un’ombra di paura.

Una chiesa cristiana si fonda sulla Bibbia, che sceglie di interpretare nel modo che ritiene teologicamente più consono: ma non è compito dello Stato decidere quale esso sia, e soprattutto non è compito dello Stato premurarsi di impedire alle Chiese di esprimere pubblicamente la loro visione del mondo. Esistono molti Paesi in cui chi pratica una religione deve farlo di nascosto, o come si sente spesso dire sui social “nel privato, a casa propria”, ossia senza che nessuno debba venire in contatto con le idee e le pratiche in questione. Non credo sia necessario fare un elenco completo, ma, contando solo quelli che perseguitano tutte le fedi e non una in particolare, possiamo ricordare Cina, Corea del Nord, Eritrea.

Nessuno dice che l’Occidente si stia avviando su questa via, ma che esistano, al suo interno, tendenze molto preoccupanti per quanto riguarda il modo di concepire la libertà è indubbio. Il vescovo dice che è stato dato “un segnale forte dalla Corte” per “difendere i nostri diritti fondamentali come cittadini e cristiani”, anche se in realtà si tratta solo del primo grado di giudizio, e il procuratore con ogni probabilità farà ricorso. Però intanto è un buon punto di partenza, questa decisione unanime, con cui i tre giudici del tribunale distrettuale di Helsinki hanno stabilito che entrambi gli imputati fossero assolti da tutte le accuse, soprattutto per le motivazioni fornite: “interpretare concetti biblici non è il ruolo del tribunale distrettuale”. La Corte ha inoltre ordinato allo Stato di pagare le spese legali sostenute dalla difesa, proprio in virtù di questa mancanza di fondamento di fondo ad un procedimento di questo genere.

C’è chi si è spinto oltre, nel commentare la decisione in oggetto, come Timothy Quill, segretario generale del Consiglio internazionale luterano (ILC), che ha fornito ampia copertura mediatica alla vicenda, e secondo il quale esiste “un movimento pericoloso nelle società occidentali”, che mira “ad imporre” una sorta di “religione laica progressista” a spese della libertà di parola e di religione. Quello che pare certo, è che spesso chi si reputa investito del compito di portare avanti il compiersi delle magnifiche sorti e progressive tende a mettere rapidamente da parte la famosa citazione di Voltaire sul dare la vita per permettere agli altri di esprimere anche opinioni sgradite, preferendogli quella, forse ancor più abusata, attribuita a Popper sulla necessità di non tollerare gli intolleranti. Se questo atteggiamento può soddisfare chi si rispecchia in ideologie totalitarie di destra o di sinistra, non dovrebbe certo essere accolto con altro che timore da chi si pone su posizioni liberali: la democrazia si fonda in modo esplicito sulla libertà di fede e di parola, di religione e di espressione, e tale libertà non si deve fermare di fronte a opinioni che non ci vanno a genio.

“Non può esistere il diritto a non sentirsi offesi da niente e da nessuno”, ha dichiarato brevemente ma centrando il punto la deputata Räsänen all’uscita dall’aula. Non siamo tenuti a condividere la posizione della deputata o della Bibbia sulla natura delle relazioni omosessuali, né ad applicarla alla nostra esistenza, non dobbiamo farci piacere le sue opinioni sulle persone che le praticano, ma non abbiamo il diritto di impedirle di averla o di leggerla dal testo sacro di quella che resta religione prevalente e riconosciuta nel suo Paese, né di esporle all’interno del civile confronto politico. Almeno, non abbiamo ancora questo diritto, e la sentenza di Helsinki – come sottolineato da Marco Rubio e dagli altri senatori americani – ce lo conferma, ma allo stesso tempo ci mette in guardia da quanto vicini siamo al dover difendere il diritto che invece abbiamo, di pensare, parlare e pregare liberamente, di fronte ai tribunali statali.

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