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Il rischio di semplificare la storia per fini didattici o, peggio ancora, per mera propaganda ideologica

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Piaccia o meno, quello che caratterizza un popolo nell’immaginario collettivo è come si sia comportato in guerra. Anche se un esercito, se vogliamo essere onesti, non rappresenta che la volontà politica e militare di un governo che manda i soldati a combattere e, comunque, un popolo è composto anche di persone che, per i più svariati motivi, non partecipano alle guerre. Non v’è dubbio che quando, per fare un esempio, si dica “i tedeschi sono fatti così e cosà” si faccia riferimento, principalmente, agli eserciti tedeschi, ai militari tedeschi e, comunque a gente in armi. Se ancora persiste, in larga parte della popolazione, una forma di malcelata ostilità verso la Germania, lo si deve indubbiamente all’occupazione tedesca del nostro territorio, durante l’ultimo conflitto mondiale, da parte delle truppe di Hitler; non potendo o non volendo dimenticare orrori quali le deportazioni di massa, le spietate rappresaglie delle SS e tutto ciò che i più anziani tra gli italiani videro coi propri occhi. Dall’altra parte, ossia da quella dei nostri ex alleati, è tuttora assai diffusa tra la popolazione germanica una marcata diffidenza verso di noi, in quanto ritenuti, in sostanza, proclivi al tradimento.

Sono ancora questioni immense e controverse, a quasi un secolo di distanza dall’inizio del conflitto mondiale, e tutto ciò non ha una vera giustificazione, ma ancora accade. Le guerre lasciano ferite immense. Se quelle materiali sono, in qualche misura e nel tempo, guaribili, altrettanto non si può dire delle ferite morali, del vulnus inferto ad intere popolazioni, che sappiamo persistere e resistere ai secoli. Da qui a dire che tra italiani e tedeschi non possa che esserci diffidenza reciproca, sottomissione da una parte e prevaricazione dall’altra, ne passa, o perlomeno, dovrebbe passarne parecchio; ma, tant’è, che quello che si sente dire in giro a proposito del rapporto tra il nostro Paese e la Germania, quella è l’impostazione. Purtroppo, l’odio è persino ereditario, mentre il perdono è sempre e soltanto personale.

Molto, in tema di perdono, avrebbe potuto fare, e soltanto talvolta ha fatto, la Chiesa, che sappiamo essere ritenuta da taluni parte compartecipe di certe ingiustizie del tempo di guerra, e non sto parlando di Crociate o di Pio IX, ma di fatti relativi, appunto, all’ultimo conflitto mondiale. Si pensi a quanto interesse stia suscitando, proprio in questi giorni, la decisone vaticana di togliere il segreto di Stato sui carteggi di Papa Pio XII, dai quali potrebbe emergere con chiarezza storica il suo ruolo ed il suo rapporto preciso con i protagonisti delle più tragiche vicende dell’ultima parte della Seconda Guerra Mondiale e dissipare i dubbi che addirittura gravano ancora sull’operato di Papa Pacelli.

Il compito degli storici dovrebbe essere quello di riportare le vicende storiche ad una narrazione obiettiva e scevra da valutazioni politiche personali, e sappiamo che accade raramente, essendo, al contrario, assai diffusa la pratica di raccontare una storia sempre più ricca di valutazioni personali dell’autore del testo e sempre meno ricca di precisi e documentati particolari accadimenti importanti. Ciò che preoccupa maggiormente, tuttavia, è l’inarrestabile scostamento tra dati storici e narrazione retorica, quando non si arrivi all’esagerazione ideologica, in una sorta di storia a fumetti che tanto parve rivoluzionaria ed efficace ai suoi ideatori degli anni ’80, efficace perché piena di eroi senza macchia e di spietati carnefici da raccontare alle future generazioni e, di conseguenza, facile da apprendere. Colpisce l’assenza di ombre e dubbi che rendano difficile la collocazione dei principali protagonisti storici recenti tra i buoni o i cattivi.

Ciò che, invece, la storia dovrebbe insegnare è che le ombre esistono, eccome, proprio perché la natura umana è estremamente sfaccettata e tremendamente soggetta a pressioni, suggestioni, errate valutazioni e contingenze temporanee che possono benissimo ascrivere ad un “buono” atti di autentica ferocia e momenti di profonda umanità ed altruismo anche allo spietato dittatore. Il problema di fondo è che, come la matematica, la storia non si può semplificare se non a costo di saltarne parti essenziali, col rischio di non capirne nulla. Semplificando le complesse vicende storiche che portarono dai primi moti risorgimentali alla proclamazione del Regno d’Italia, ossia la nostra prima forma di nazione unica ed indivisibile, non potremo capire un accidente di cosa veramente siamo, senza avere prima appreso quanti e perché volessero davvero fare l’Italia, di quali alchimie politiche furono necessarie, e quanto sangue, per costruire la nazione che i nostri giovani credono coesa e desideratissima già dai suoi primordi, ma che non fu assolutamente tale e nemmeno lo è più di tanto adesso, nei fatti.

Su troppi libri di storia leggiamo tutt’oggi un ritratto favolistico di Giuseppe Garibaldi (e già qualcuno potrebbe chiedersi perché fosse “Eroe dei Due Mondi”, evidentemente non disdegnando egli combattere, ben pagato, di qua e di là) nella stessa misura in cui secondo questa narrazione semplificata della “storia a fumetti” si ritiene che Re Vittorio Emanuele II, Mazzini, Cavour e lo stesso Garibaldi fossero fraterni amici accomunati dalla medesima visione salvifica dell’Italia Unita. Chiunque approfondisca un po’ quelle vicende, scoprirà con stupore che il “Re Galantuomo” detestava apertamente Cavour e che tra Garibaldi e Mazzini vi furono anche insulti pesantissimi, anni di rifiuto di soltanto sentir nominare l’altro e tutta una serie di complicazioni che rendono quelle vicende davvero difficili da capire e studiare a fondo.

Ma quelle, e solo quelle, furono, e persino il risultato unitario del 1861 fu certamente un compromesso, nemmeno completamente accettato (altro che entusiasmo!) e sicuramente non gradito a circa la metà della popolazione della nostra Penisola. Non è tollerabile semplificare la storia, per fini didattici, o, peggio ancora, per propaganda. Siamo talmente bombardati dalla visione edulcorata della nostra assai articolata evoluzione storica (del tutto ignorata da almeno il 90 per cento di noi, e questo è persino un record mondiale) e talmente avvezzi agli slogan, alle citazioni “a capocchia”, che di storia patria ne sappiamo così poco da poter addirittura divertirci a chiedere ai ragazzi, ma non solo a loro, chi sia l’autore di certe frasi che sembrano inventate da chissà chi, in tempi recenti.

“Noi siamo da secoli calpesti e derisi, perché non siam Popolo, perché siam divisi…”.

Provate anche voi, come ho fatto io stesso, a chiedere ad amici e conoscenti chi possa aver scritto una frase tanto offensiva per noi. La maggioranza vi dirà di non saperlo, ma che è una vergogna! Quando direte loro che è la terza strofa del Canto degli Italiani, scritto da Goffredo Mameli nel 1847, strabuzzeranno gli occhi. Se, poi, aggiungete che il nostro inno nazionale dice ancora “I bimbi d’Italia si chiaman Balilla” che tutti, univocamente attribuiscono a Mussolini, otterrete altro stupore. Se proprio voleste essere particolarmente feroci, chiedete agli stessi quale sia il titolo dello stesso nostro inno nazionale e, statene certi, vi risponderanno senza indugio: “Fratelli d’Italia”. Quando direte loro che la risposta è sbagliata, e che il titolo è “Il Canto degli Italiani”, vi guarderanno male, e forse vi sarete tolti d’intorno i meno amici. Orbene, provate a chiedere ad un francese quale sia il titolo del loro inno nazionale. Nessuno di loro vi dirà: “Allons enfants de la Patrie” bensì “La Marsigliese”. Loro. Vabbe’, mi direte, anche da noi, se chiedete quale sia il titolo della più famosa canzone di Domenico Modugno, vi risponderanno: “Nel blu dipinto di blu” e non “Volare”. Ma, con tutto il rispetto per Modugno (che non era siciliano, come i più credono, bensì pugliese), tra Sanremo e Risorgimento corre ancora una certa differenza. Comunque sia, la storia imprecisa, proprio non può essere insegnata a scuola, se non vogliamo essere imprecisi ed approssimativi pure noi, soprattutto quando andiamo votare.

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