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La scuola è finita, in tutti i sensi: il vuoto dietro il fermento di progetti e i fiumi di retorica

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Riceviamo e volentieri pubblichiamo questa analisi della dott. ssa Maria Cristina Arpaia, psicoterapeuta

La scuola è tutto un fermento di progetti, piani individualizzati, piani speciali, piani di sostegno, eppure non si riesce a sottrarsi all’impressione che questo lavorio frenetico copra un disagio, l’incapacità di restare ancorati al dato reale elementare: l’allievo e i suoi bisogni reali

“La scuola è finita”: semantica bidimensionale. È finita perché è, infatti, giunto al termine anche quest’anno scolastico, con tutte le sue peculiarità ed eccezionalità, le sue contraddizioni e le polemiche suscitate. È finita in quanto è venuto meno, attraverso un processo lento e silenzioso ma inesorabile, il ruolo fondante della scuola nella nostra società. Ma la situazione eccezionale che abbiamo vissuto con la pandemia ha mostrato le linee di sfaldatura del nostro sistema d’istruzione, da tempo immemore presenti ma forse invisibili ai più. Freud sosteneva che la sintomatologia, esprimendo il nostro peculiare modo di stare al mondo, emergesse non in modo casuale e arbitrario ma secondo delle linee di spaccatura precedentemente tracciate e sedimentate, caratteristiche di ciascun individuo: la metafora del cristallo crepato o rotto secondo margini predefiniti serviva a descrivere la personalità che, a seguito di traumi o crisi, rimaneva incrinata nella sua cristallizzazione consueta (attraverso il sintomo) e/o rischiando di  rompersi (frammentazione più o meno intensa).

La nostra scuola è come un prisma, all’osservazione superficiale ed esterna la luce vi si riflette in baluginio, ma appena se ne lambiscono le angolature possono intravedersi quelle linee di scissione, a un primo sguardo invisibili, che ne descrivono la direzione di rottura. Fuor di metafora, il baluginio di progetti, dell’inclusione, dell’educazione civica, dei programmi extra didattici di alta caratura, come l’importanza di attraversare sulle strisce pedonali, di buttare nell’apposito contenitore il ciarpame di casa, le UDA sulla cittadinanza attiva, sul riciclo, fa apparire la scuola una fucina di iniziative tese all’eccellenza. Ora si usa dire così: del resto se in azienda o nella classe dirigente vi sono eccellenze queste vengono forgiate proprio nella scuola.

Così, il desiderio esistenziale e il bisogno di istruzione (quella vera, che serve per imparare a pensare) sono seppelliti sotto cumuli di programmazioni didattiche escogitate ad hoc. La scuola è tutto un fermento di progetti, UDA, PTCO, piani individualizzati, piani speciali, piani di sostegno, eppure non si riesce a sottrarsi all’impressione che questo lavorio frenetico copra un disagio, l’incapacità di restare ancorati al dato reale elementare: l’allievo e i suoi bisogni reali. Forse abbiamo dimenticato che il bisogno primario di uno studente è imparare le materie scolastiche essenziali. Il resto lo può imparare in famiglia, nella società, nel contesto dei pari, in altri ambiti. Il sistema scolastico invece è ostaggio di quella medesima ipocrisia che contraddistingue il tempo contemporaneo: le roboanti dichiarazioni teoriche su inclusione, eccellenza, centralità dello studente, svaniscono come in un trucco di magia spicciola, da avanspettacolo di periferia, buono per stupefare un pubblico allocco e ingenuo, o connivente e volutamente distratto.

Chi è alle prese con gli ultimi adempimenti scolastici sa che dovrà riempire carte che nessuno leggerà: né i presidi – troppo sopraffatti da scrutini e beghe da esami di maturità o per cattiva volontà – né gli insegnanti del nuovo anno scolastico cui pure alcune di esse sono indirizzate (come le relazioni finali su alunni disabili) e che, se per la sua dignità personale il singolo insegnante le ha redatte in maniera responsabile, resteranno lettera morta quanto a iniziative e suggerimenti che in esse siano contenuti. Gli insegnanti sono diventati dei nuovi burocrati. E forse per questo sempre più in burn out, perché snaturati nella loro vocazione originaria, per questo deviati e devianti.

Ma quando è avvenuta questa mutazione genetica? Non è questo il luogo di una analisi storica dei fattori scatenanti e precipitanti, ci sono analisti migliori e più documentati di me. Quello che deve emergere è un giudizio critico (esiste un giudizio che non lo sia?) che nasce dall’esperienza: crisi è una bellissima parola il cui significato etimologico ci riporta al concetto di scelta, di direzione; il giudizio, come presa d’atto di una descrizione di realtà ci fa muovere in una direzione, ci fa scegliere, ci mette in movimento. Non è semplicemente un fare ma una adequatio del pensiero a un ideale implicito, che ravvisato ci spinge o sospinge alla sua realizzazione. Sembra di rimanere ancora nel vago, eppure senza una spinta ideale è impossibile muoversi. Non si rimane nel vago se non si è dimenticata la propria esperienza di adolescente, qualcuno potrà obiettare che non se lo ricorda, bene (male!) significa che da adolescente non ha fatto il proprio mestiere: esprimere i suoi bisogni. E forse costoro sono di quella schiera d’adulti oggi insegnanti. Gli adolescenti sono palpitanti di ideali; la scuola, anche solo semplicemente attraverso lo studio serio delle materie proposte, deve nutrire e alimentare l’animo di ciascun singolo uomo per uno sviluppo libero del Sé.

C’è, invece, una tendenza di certa psicologia – che permea l’istituto scolastico – a considerare l’adolescenza uno stadio simil-patologico, l’adolescente un uomo in fieri non nel senso positivo ma come uno incompiuto, quindi fragile, come può esserlo l’interdetto nel linguaggio giuridico. I programmi perciò sono sempre più semplificati, la cultura è nozione, ridotta al rango di informazione, neppure sempre contestualizzata. Non vengono proposte le categorie per pensare, si confeziona un pensiero predefinito e altro, da far pensare. Basta sfogliare un libro di testo.

Adolescenti sempre più infantilizzati, secondo l’equivoco istituzionalizzato che bisogna regredire nel loro mondo, nella “facilità” del loro mondo. Pasolini, con la sensibilità acuta che lo contraddistingue, ci rammenta che “col ragazzo bisognerebbe essere al contrario difficili. Difficili in quanto ciò che egli ricerca non è nel suo mondo! È fuori dal suo mondo, nel nostro: i suoi problemi sono i nostri ed è quindi inutile lasciarlo in una vacanza che lo minora e lo perseguita”.

Distanze siderali separano la nostra “buona scuola” dalla vetusta pratica di assecondare la curiosità, della giovanile età premio.

Del resto, sempre Pasolini ci ricorda che la scuola si fonda sul compromesso e “si orienta verso il generico”, trattandosi di un istituto che richiede un ampio consenso. In ultima analisi il problema è sempre politico. Arriverà il momento della denuncia? Di una reale presa di coscienza? Libera dall’ipocrisia? Siamo tutti riuniti intorno al tavolo d’obitorio di un morto, ma ne descriviamo il colorito roseo, lo sguardo vivo, la giacchetta tiffany e il drappo di velluto per ricoprire la bara, mentre il liquame maleodorante si travasa in imbuto.

Forse da qualche parte si può iniziare, tenendo d’occhio, come sulla linea d’orizzonte, sia l’aspetto contenutistico sia quello del benessere anche psicologico dell’adolescente:

  • si paragona la scuola ad un’azienda, ebbene se un’azienda è in perdita se ne rimuove il capo, o almeno lo si controlla. Lo stesso vale per la scuola: occorre reinserire gli ispettori esterni, il dirigente scolastico deve ritornare, e non solo formalmente, responsabile del suo operato di fronte a terzi. Se incapace, rimosso.
  • Occorre ostacolare l’inserimento in massa di nuovi insegnanti, come si sta per fare con l’ennesimo concorsone (è doveroso ricordare che l’istituzione del concorso della cosiddetta “buona scuola” fu fatto per il reclutamento di nuovi abilitati quando abilitati esistevano già come vincitori di concorsi pregressi, bastava semplicemente reclutare quelli). Si parlava incidentalmente prima di vocazione: non tutti possono fare gli insegnanti, perché non ne hanno la vocazione, non sono “vocati” né dalla passione per giovani anime da nutrire né dalla necessità del sapere (di nozionismo son pieni, quando non sono ignoranti pure di quello).
  • Occorre salvaguardare la figura dello psicologo nella scuola, una importante conquista, ma si privilegino figure esterne. Per preservare la “terzietà” di questa figura chiamata al compito delicatissimo di recepire i disagi e le problematiche ingruenti di tanti adolescenti. Uno psicologo interno è molto più facilmente organico al sistema in cui opera e le sue dinamiche relazionali possono essere viziate dalle concezioni dominanti nella sua scuola. Si possono innescare dinamiche perverse per cui lo studente diventa una “rotella” del processo: l’insegnante legge un tema “strano” (secondo il suo criterio di valori), parla dello (non “con” lo) studente con gli altri insegnanti, se ne parli o meno in collegio docenti, il “pacco” si ritrova sulla scrivania dello psicologo, in un iter perfetto nelle sue procedure di settorializzazione dei ruoli, perverso nella sua assenza di umanità.   
  • Si deve applicare una realistica scala di valutazione che rispecchi il valore reale dei saperi dell’alunno, funzionale alla costruzione di una reale autostima. Non dimenticando che la persona va considerata nella sua globalità: nel voto non può esserci solo la resa ad una interrogazione, come essa fosse avulsa da un contesto, ma come l’output di un processo più evoluto che coinvolge molti altri aspetti dell’alunno (impegno, disponibilità, merito).
  • Un accenno doveroso va fatto ai bellissimi ragazzi disabili, pieni di potenzialità, spesso emotivamente intelligentissimi (molto più dei loro insegnanti), capaci di uno sviluppo cui troppo spesso sono impediti dalla miope aridità di un intervento riduttivo, considerando come il punto di arrivo il loro handicap, quando questo è solo il punto di partenza per una didattica realmente tesa al fiorire dei loro potenziali. A dire il vero, in questa riduzione tante volte sono aiutati da certi neuropsichiatri, ma questa è un’altra storia. L’inclusione è prima di tutto una forma mentis dell’insegnante, che deve includere l’alunno disabile nella concezione che ha di persona. Bisogna starci insieme con uno sguardo pedagogico, amarlo per quelle caratteristiche che lo rendono unico.
  • Bisognerebbe eliminare tanta burocrazia dai processi formativi degli insegnanti, semplificare la progettazione didattica nella direzione di una maggiore focalizzazione sulle materie oggetto di studio: perché se uno studente diventa un cittadino modello che segue in modo ineccepibile le procedure del riciclo ma non sa pensare e ragionare forse qualcosa non funziona. E, vi prego, scardiniamo l’idea diffusa della scuola come luogo di democrazia, la boutade finale della farsesca iconoclastia scolastica.

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