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L’arte di scrivere (anche) per gli altri: la fantastica prova dello speechwriter di Trump

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Lo splendido, calibrato, elegante, spiazzante discorso sullo stato dell’Unione pronunciato tre giorni fa da Donald Trump ripropone un tema (e un’arte) troppo spesso dimenticato: lo “speechwriting”.
Tranne eccezioni (Churchill in testa), sono stati pochi, nella storia moderna, i leader politici che erano anche leader culturali, portatori di una loro visione e di un loro linguaggio, parte essenziale e direi sostanza stessa della loro politica. In epoca contemporanea, invece, quasi tutti hanno fatto e fanno ricorso all’aiuto di altri.
Ci sono circostanze in cui la parola scritta, la solennità di un testo scritto, sono indispensabili. E in cui la scelta di ogni singolo vocabolo, di ogni sfumatura, di ogni nuance, non può essere lasciata all’improvvisazione. Ecco perché stiamo parlando di qualcosa di decisivo. Che, come si è visto l’altra sera in America, può anche aiutare a ridefinire un “tono”, a rimodulare il registro complessivo della comunicazione (e quindi della politica) di un leader, andando oltre le scontatezze, oltre il prevedibile, oltre il già sentito.
Tutti quelli che sono coinvolti nella vita pubblica dovrebbero – almeno una volta – cimentarsi nell’esercizio di scrivere anche per qualcun altro, oltre che per se stessi. È una prova difficilissima, stimolante, diabolica. E, per converso, tutti quelli che hanno una posizione di responsabilità dovrebbero provare a compiere l’atto di umiltà di farsi assistere da qualcuno che stimano.
Badate bene, non si tratta di fare il termino in classe (per l’uno) e di dimostrare di saperlo leggere (per l’altro). Per entrambi, la sfida è molto più grande. Il primo deve, come un bravo sarto, realizzare un vestito adatto al corpo che lo indosserà, senza esagerare nel trasformare l’oratore in un proprio ventriloquo. Ma anche avendo l’ambizione – con un dosaggio intelligente, tirando la corda senza mai spezzarla – di contribuire a determinare una linea, un percorso, un orizzonte. Il secondo, se è in grado, dovrebbe indicare l’obiettivo politico; se invece non è in grado, dovrebbe almeno chiedere a chi lo consiglia di disegnare diversi scenari, di preparare diverse opzioni, e poi di scegliere e via via adattare e perfezionare la soluzione migliore.
Il primo non deve peccare di “ubris”, pensando di sostituirsi all’oratore, ma neanche deve sparire e annullarsi. Il secondo dovrebbe essere sufficientemente umile e consapevole dei propri limiti, oltre che delle proprie qualità, per comprendere la “misura” esatta del contributo esterno di cui ha bisogno.
Ma mi rendo conto di dire cose strane e perfino straniere in Italia e per la politica italiana. Dove l’improvvisazione e la rozzezza del discorso pubblico vanno di pari passo con la presunzione e le ambizioni sbagliate di leader spesso casuali, transitori, senza respiro.
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