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Il Natale oltre la fede: un momento per recuperare un senso laico di comunità

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Finalmente sta tornando quel momento dell’anno che per gli antichi era il Dies Natalis Solis Invicti, l’attimo in cui la luce tornava lentamente a recuperare terreno sull’oscurità, la notte, le tenebre dopo il solstizio d’inverno. Una questione di pochi giorni, tra il 21 dicembre e quelli immediatamente successivi: il sole pareva restarsene immobile, dopo aver raggiunto il punto di massima distanza equatoriale. Accade tuttora chiaramente, ma non ci facciamo caso perché gli astri e ciò che ruota nell’universo non sono più fondamentali nel calcolo del tempo, dei giorni e delle stagioni. Ci affidiamo ai calendari, alle applicazioni e alle previsioni meteo che però traggono le loro basi dalla stessa astronomia degli antichi.

La lentezza non ci appartiene granché. La politica, che incide più delle stelle sulle nostre vite, è velocissima e tritura rapidamente fatti e personaggi e di riflesso la stessa cosa accade alla nostra quotidianità, per accorgercene solo – si spera almeno – durante la festa di Natale. Non è una questione di regali per famigliari e cari e nemmeno di pranzi e cene che richiedono ben più tempo del solito, quanto piuttosto di stati d’animo e di sacrosanto distacco dalla routine e svago. Ci si può fermare a pensare, a riflettere e ad ascoltare.

Torniamo a far parte di una comunità: quella dalla quale proveniamo (la famiglia d’origine) o alla quale apparteniamo in seguito (la famiglia che mettiamo in piedi); quella con cui condividiamo (le amicizie ad esempio) o con la quale siamo partecipi di un’intenzione più grande (la parrocchia, il paese, la città). La casa si rivela essere per ciò che dovrebbe essere costantemente, un rifugio per ricordare a noi stessi chi siamo e coltivare le nostre vite intime e uno spazio per accogliere chi contribuisce a delineare la nostra personalità.

Potrebbe sembrare solo una questione di fede, il Natale, ma finirebbe per rivelarsi un’arma filettata a doppio taglio perché o ce l’hai o non ce l’hai, salvo poi tener presente che nell’infinità di sfumature che adoperiamo per descrivere e analizzare ciò che succede finiamo spesso per ingarbugliare, sfuocare e reinterpretare a proprio piacimento alcuni elementi di pensiero che dovrebbero essere al contrario ben definiti e indissolubili.

L’australiano Nick Cave è palesemente ingarbugliato o poliedrico, aggettivo che meglio si adatta ad un artista che non sperimenta solo nella musica, ma anche nella scrittura e nel cinema. Capire quale sia il suo rapporto con la fede è difficile ed è un esercizio che ciascuno può affrontare come meglio crede, ascoltando i suoi brani come God is in the house, contenuto nell’album “And no more shall we part” del 2001. Pare che per questa lenta ballata spirituale abbia preso ispirazione da un viaggio negli Stati Uniti, rimanendo colpito da come molti credenti siano certi che Dio abiti nelle loro case, proteggendole.

We’ve laid the cable and the wires
We’ve split the wood and stocked the fires
We’ve lit our towns so there is no
Place for crime to hide

L’attacco è l’origine di una comunità, che pone cavi e fili, porta la luce nei centri abitati e impedisce al crimine di nascondersi nell’oscurità, potendo così affrontare con serenità e fede la notte, silenziosi come topi per accogliere la voce che sussurra che Dio è entrato nelle case (We all go quiet as a mouse / For the word is out / God is in the house).

C’è chi vede nel testo una critica ad una società rurale bigotta che divide tutto in bene e male e inevitabilmente il male assoluto è la città, dove per strada girano gli omosessuali: froci picchiatori con i cric e lesbiche che si lanciano al contrattacco.

Homos roaming the streets in packs
Queer bashers with tyre-jacks
Lesbian counter attacks
That stuff is for the big cities

Ma la contrapposizione tra la campagna conservatrice e razzista e la città liberale e progressista è materia per moral sneaks in the White House (spioni moralisti della Casa Bianca), computer geeks in the school house (malati di computer che affollano le scuole), well-meaning little therapists (piccoli terapisti ben intenzionati) e goose-stepping twelve-stepping Tetotalitarianists (totalitaristi astemi che marciano a passo d’oca): we got no time for that stuff here, qui dove si è convinti che Dio sia nelle nostre cose non abbiamo tempo per queste cose. C’è altro di ben più importante.

And at night we’re on our knees
As quiet as a mouse
Since the word got out
From the North down to the South
For no-one’s left in doubt
There’s no fear about
If we all hold hands and very quietly shout
Hallelujah
God is in the house

Ci inginocchiamo nel buio, silenziosi come un topo, senza paure, perché si è sparsa la voce, da Nord a Sud, e nessuno rimane dubbioso: Dio è nella casa. Non è forse ciò che facciamo a Natale assieme a coloro che per noi sono la comunità di cui siamo parte? E per quanto qualcuno possa essere ateo, agnostico o identificarsi in qualche altra etichetta al passo coi tempi, la sensazione di attraversare un momento che accompagna fuori dalle tenebre, senza animosità e senza fagocitare gli attimi che si susseguono, è comune.

A Natale si celebra una nascita, un nuovo arrivo tra le nostre esistenze. A noi più grandi spetta il compito di disintossicarci e riaffermare il legame ad una comunità che non possiamo fingere che non esista.

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