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Va bene la capacità critica, ma insegnare non vuol dire adeguarsi agli esiti della “libertà creativa” degli studenti

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S’è fatto un gran discutere di un’insegnante che avrebbe permesso un percorso di ricerca gestito autonomamente dagli studenti, con il risultato finale del lavoro di gruppo costituito dal confronto fra leggi razziali di Mussolini e decreto sicurezza di Salvini, tutto assemblato in un video debitamente pubblicizzato. Naturalmente c’è stato un largo consenso da parte del variegato mondo dell’anti-fascismo, già proclive a riscontrare un risorgente clima da marcia su Roma, agitando la bandiera della libertà di insegnamento; non so se avrebbero fatto lo stesso qualora il video avesse riguardato lo scontro fra partigiani e repubblichini, reso in termini di guerra civile, in cui entrambe le parti si battevano per ideali contrapposti.

Ma scuotiamoci dalle scarpe questa polvere della campagna elettorale, per andare alla base del problema. Che cosa significa insegnare? Credo di poterne parlare con una qualche esperienza alle spalle, avendo speso diciotto anni seduto sui banchi, in un continuum fra elementari, medie, ginnasio, liceo classico e corso di laurea in legge; e più di un cinquantennio seduto sulla cattedra. Non come spesso capita oggi, sempre nella sede originaria, ma in giro per l’Italia, con alcuni passaggi difficili, come negli anni 69/70 all’Istituto superiore di Scienze sociali di Trento e negli anni 76/77 alla Facoltà di Giurisprudenza di Bologna. Non ho mai pensato, da studente o da professore, che insegnare significasse trasmettere mere notizie proposte come oggettive, quindi indiscutibili, perché bisogna imparare a coltivare il dubbio, non quello che paralizza, ma quello che responsabilizza. Ma neppure ho mai pensato, da studente o professore, che insegnare volesse dire recepire passivamente le tesi e proposte portate avanti dagli studenti, anche in quei passaggi difficili in cui il contrasto saliva al calor bianco, con contestazioni pesanti, ingiurie, sequestri.

Avendo avuto la fortuna in quel mezzo secolo da docente di confrontarmi, io che invecchiavo anno dopo anno, con giovani sempre della stessa età, intorno ai 19/20 anni, ho sempre tenuto presente una lezione imparata nel mio lungo percorso di studente, che insegnare vuol dire trasmettere dei valori, a cominciare dalla capacità critica di confrontare le diverse opinioni, senza forzarle o addirittura caricaturizzarle a misura delle proprie inclinazioni e tendenze. Cosa questa tipica della fase giovanile, che certo va preferita alla ricezione meramente passiva; ma va tenuta a bada non con la vecchia bacchetta del mio maestro dell’elementari, di cui, peraltro, ho un ricordo affettuoso; ma col metodo socratico di fare domande tese a far vagliare tesi e proposte avanzate, così da favorire la capacità critica nella sua duplice valenza, critica e auto-critica.

Un insegnante non può essere un mero notaio, che prende semplicemente atto, perché se così fosse non potrebbe neppure pretendere la verifica della materia insegnata, come infatti era la rivendicazione studentesca dei c.d. gruppi di studio, dove il collettivo sceglieva l’argomento, incaricava uno di loro di esporlo, richiedeva un voto uguale per tutti, possibilmente un trenta rotondo. Se l’insegnante si adegua, non può scusarsi dicendo che ha lasciato sfogo alla “libertà creativa” degli studenti come se un pilota consegnasse il timone o la cloche ai passeggeri, per dar loro la possibilità di sperimentare la passione di condurre liberamente la nave o l’aereo.

Già, questa benedetta “libertà creativa”, che imperversa da qualche stagione, per cui ciascuno di noi ha una capacità innata di produrre cultura, sì che i benedetti disegni dell’asilo diventano opera d’arte… Non è così, perché la caratteristica che è alla base di quella che chiamiamo civiltà, comunque si declini questa parola, è proprio la capacità di trasmettere la cultura ereditata e accresciuta da una generazione all’altra; tant’è che nessuno nega il doversi dedicare allo studio per molti anni, sempre di più rispetto al passato, per poter affrontare sufficientemente equipaggiati il futuro.

Ci sono vocazioni innate, ma anche queste vanno educate, perché pure i geni sono tali per essere saliti sulle spalle di altri che li hanno preceduti. Insegnare vuol dire educare, educare vuol dire dare delle regole di comprensione e valutazione della realtà. Se uno ha un caratteraccio contro-corrente come il sottoscritto, non lo perderà per aver appreso a scrivere in una calligrafia leggibile e a contare ricorrendo alle tabelline. Anzi potrà permettersi di conservare quel caratteraccio anche in un mondo tenacemente conformista, proprio in virtù di quanto ha appreso negli anni giovanili e ha arricchito in seguito. Nessuno nasce imparato, ma può diventarlo, solo che trovi qualcuno che gli cammini davanti, permettendogli di mettere i piedi nelle sue orme, nel primo tratto sconosciuto di cammino.

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