Esteri

Come funziona il traffico di armi in Africa e perché la colpa è degli africani

Principali fonti di rifornimento sono gli Stati africani stessi, a causa della corruzione dilagante. Accusano l’Occidente, ma hanno raddoppiato la spesa per armi

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In Africa si contrabbandano enormi quantità di armi che riforniscono movimenti armati antigovernativi, organizzazioni criminali, gruppi jihadisti, bande di delinquenti. In parte provengono anche da altri continenti, ma, come da tempo è stato documentato, la principale fonte di rifornimento sono gli Stati africani stessi.

Le vie del contrabbando

Questo è particolarmente vero nel caso dell’Africa occidentale, come rivela il rapporto pubblicato alla fine del 2022 dall’Ufficio dell’Onu contro la droga e il crimine (Unodc), intitolato “Il traffico di armi da fuoco nel Sahel”, parte di una più ampia indagine sulla criminalità organizzata transnazionale nel Sahel che l’agenzia Onu sta conducendo.

Le armi, spiega il rapporto, per lo più vengono trasportate in piccole quantità, percorrendo distanze anche notevoli e superando più di un confine nazionale. Molti degli “hub” del commercio illegale si trovano in piccole città e in villaggi situati in punti strategici di territori caratterizzati da scarsa e “distratta” presenza dello stato, così come lo sono le rotte seguite dai convogli dei contrabbandieri e i punti di frontiera attraverso i quali transitano.

In assenza dello stato, sono territori alla mercé di bande e gruppi armati, molti dei quali impongono dazi lungo le piste che solcano il deserto del Sahara ricavandone cospicui introiti. Oltre all’assenza quasi totale di presidi governativi, anche la composizione etnica della popolazione favorisce notevolmente il contrabbando rendendo più facile il trasporto delle armi in diversi stati.

È il caso delle regioni dove vivono i Fulani, una etnia tradizionalmente dedita alla pastorizia, in parte transumante, che è presente in almeno 15 Paesi.

Gli acquirenti

Le armi più moderne e di fabbricazione industriale sono le più costose, spiega ancora il rapporto, e per questo sono soprattutto i gruppi jihadisti affiliati ad al Qaeda e all’Isis a disporne, mentre altre milizie, ad esempio quelle dei pastori costituite, in tutto il continente non solo nel Sahel, per razziare bestiame e difendere pascoli e sorgenti, si orientano su armi più economiche.

Quelle fabbricate artigianalmente in Africa occidentale e centrale e quelle residue di grandi quantitativi importati da Paesi in guerra, come nel caso della Sierra Leone e della Liberia, teatro di due lunghi conflitti civili combattuti rispettivamente dal 1991 al 2002 e dal 1989 al 2003.

Le armi

Tra le armi più richieste ci sono vari modelli di AK perché sono fucili resistenti e che spesso possono essere usati anche per decenni. Gli AK di nuova fabbricazione, più costosi, sono reperibili in quantità, insieme ad altre armi moderne, al mercato nero di Gao, Timbuktu e Menaka, tre città del Mali settentrionale dove hanno le loro basi molti dei gruppi jihadisti più attivi.

Il supermercato libico

In gran parte provengono dalla Libia, il Paese da cui si sono riversate armi in tutto il continente a partire dal 2011, anno della destituzione e uccisione del presidente Muhammar Gheddafi. Molto del suo immenso arsenale è finito nel Sahel, nel Maghreb, nel Corno d’Africa e ci sono prove di materiale bellico libico importato fin nella Striscia di Gaza e in Siria.

Dalla Libia, si diceva all’epoca, dopo la caduta del colonnello Gheddafi usciranno abbastanza armi da armare l’intero continente africano. Il Paese era stato definito il “supermercato mondiale del commercio illegale di armi”. “La primavera araba porterà a un’estate di follia nella regione”, aveva previsto l’allora presidente del Mali, Amadou Toumani Touré, e la storia gli ha dato ragione.

È anche grazie alle armi di origine libica, contrabbandate specie tra il 2011 e il 2013, che centinaia di gruppi armati e di organizzazioni criminali hanno potuto intensificare ed estendere le attività.

Le fonti

Una delle fonti di approvvigionamento di armi per il traffico transnazionale evidenziate dal rapporto Unodc sono le milizie popolari di autodifesa. Ormai presenti in molti stati, queste milizie nascono spontaneamente (Repubblica Centrafricana, Kenya, Repubblica democratica del Congo…) oppure sono organizzate e armate dai governi stessi (Etiopia, Nigeria, Burkina Faso…) per rimediare all’inefficienza, e peggio, delle forze dell’ordine che, per mancanza di direttive, mezzi e motivazione, non proteggono i civili.

Vendere al mercato nero e contrabbandare le armi in loro possesso è facile perché, anche nel caso siano state registrate, in breve tempo se ne perde traccia.

In assoluto, però, le principali fonti delle armi contrabbandate sono gli eserciti nazionali: sottratte ai soldati in battaglia, rubate negli arsenali, vendute – e sono sicuramente i quantitativi maggiori – da militari corrotti.

La corruzione dilagante

La cosa non sorprende chi segue le vicende del continente africano. La corruzione dilaga anche nel settore della difesa. Clamoroso è il caso della Nigeria, dove da anni spariscono armi e attrezzature militari per milioni di dollari, a volte stornate prima ancora di raggiungere i depositi ed essere consegnate ai soldati

E intanto la criminalità organizzata agisce quasi del tutto incontrastata e due gruppi jihadisti più volte dati per praticamente sconfitti, Boko Haram e Iswap, resistono nelle loro roccaforti del nord est.

La corruzione, a causa della quale tante armi spariscono dagli arsenali ed estesi territori e lunghi tratti di confine sono privi di controllo, è un problema di cui tutti sono consapevoli, un fenomeno vistoso che tuttavia si continua a minimizzare o a ignorare.

Ad accennarvi, in occasione della presentazione del rapporto, è stato Leonardo Lara, dirigente della prevenzione della criminalità e della giustizia penale all’Unodc. La corruzione, ha ammonito chiamandola “il grande elefante nella stanza”, “è sicuramente un elemento che deve essere preso in considerazione quando si parla dei responsabili della diversione delle armi”.

Raddoppio della spesa

A proposito di responsabili e di armi, merita segnalare un altro documento, pubblicato il 18 febbraio da Oxfam, la confederazione internazionale di ong impegnata nella lotta contro la povertà. È un rapporto che riguarda le spese militari in Africa, dal quale risulta che nel 2022 i governi africani hanno raddoppiato la spesa per l’acquisto di armi, portandola in media al 6,4 per cento del loro bilancio e questo mentre al tempo stesso riducevano ulteriormente la spesa pubblica destinata all’agricoltura, diminuita al 3,8 per cento.

Oxfam non lo dice, ma quindi gli africani hanno speso il doppio in armamenti proprio mentre dichiaravano di aver subito enormi, insostenibili danni economici a causa della pandemia di Covid-19, della guerra in Ucraina e dei cambiamenti climatici, mentre accusavano l’Occidente di esserne responsabile (del Covid, secondo loro, per non aver assistito il continente con vaccini e medici, della guerra per aver “costretto” la Russia a invadere l’Ucraina e del cambiamento climatico perché “prodotto dallo stile di vita e dal modo di produzione occidentali”) e mentre reclamavano per questo risarcimenti e investimenti internazionali per centinaia di miliardi di dollari.

Import da Russia e Turchia

Oxfam non dice neanche che più di tutti a trarre vantaggio dalle crescenti spese militari africane è la Russia, che nel 2022 ha fornito quasi metà di tutte le armi importate nel continente. Sebbene per un volume di affari nettamente inferiore, tra gli altri Paesi che ne hanno approfittato spicca la Turchia.

La vendita in Africa di armi prodotte dalla Turchia è aumentata in maniera esponenziale. Nel 2021 ha raggiunto i 460 milioni di dollari, cinque volte più che nel 2020.

Aiuti dei Paesi ricchi

Da chi i governi africani acquistano le armi e quante, a Oxfam non interessa perché lo scopo del suo rapporto è evidenziare l’urgenza di interventi in favore dell’agricoltura, in particolare in aiuto ai piccoli agricoltori.

La ong sostiene che gli Stati africani devono “dare una vera risposta all’urlo di dolore del loro continente”, ma che soprattutto bisogna spingere i Paesi ricchi e i grandi donatori a fare la loro parte. Già adesso un africano su cinque patisce la fame:

Senza finanziamenti significativi e addizionali, rispetto a quelli già previsti dagli stanziamenti in aiuto allo sviluppo e per l’adattamento e la mitigazione dei cambiamenti climatici, non sarà possibile limitare danni e perdite e, nei Paesi africani più colpiti, non ci sarà salvezza. La risposta della cooperazione internazionale è urgente e necessaria.

Il rapporto cita dati dell’Ocse. Nel 2021 i Paesi industrializzati hanno destinato solo lo 0,33 per cento del loro prodotto nazionale lordo agli aiuti allo sviluppo, “una quota drammaticamente lontana – spiega Oxfam – dallo 0,7 per cento che avevano promesso nel 1970 e che rappresenta uno degli obiettivi fondamentali dell’Agenda Onu 2030 per lo sviluppo sostenibile”.

L’Italia, peggio ancora, stanzia solo lo 0,22 per cento, salito allo 0,29 per cento solo grazie ai contributi straordinari forniti durante la pandemia alle agenzie delle Nazioni Unite impegnate in aiuti umanitari.

L’investimento in cooperazione internazionale dunque è ancora del tutto insufficiente: “le responsabilità dell’attuale emergenza – conclude Oxfam – sono certamente della comunità internazionale, dei Paesi donatori, delle istituzioni economiche globali”.

Strana logica

Strana logica questa, tuttavia affatto insolita, secondo la quale i Paesi ricchi e grandi donatori (per inciso, quasi tutti occidentali) devono aumentare i contributi alla cooperazione internazionale allo sviluppo per rimediare al fatto che i governi africani hanno ridotto gli investimenti nel settore agricolo e hanno raddoppiato i fondi, anche per questo gravandosi di un debito estero insostenibile al punto da rischiare il default, per acquistare armi, una parte delle quali, per di più, finiscono nei circuiti del fiorente commercio illegale africano.

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