Esteri

Russia

Da Ivan III a Putin, il dispotismo orientale sotto una patina occidentale

Secondo Marx le origini della Russia moderna non sono nella Rus’ di Kiev ma nel dominio tataro, nel “sanguinario degrado della schiavitù mongola”

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C’è un testo semi-sconosciuto e praticamente introvabile di Karl Marx che, a 165 anni dal suo concepimento, aiuta a decifrare quel “mistero avvolto in un enigma” chiamato Russia. Si intitola Rivelazioni sulla storia diplomatica segreta del XVIII secolo ed è una raccolta di articoli scritti tra il 1856 e il 1857 per il britannico The Free Press.

L’argomento principale è la perdita dell’egemonia del Regno Unito sul Baltico a favore della Russia, ma è un altro il punto su cui vorrei soffermarmi. Nel capitolo V del libro Marx analizza come l’Impero zarista sia riuscito a diventare una potenza di grandi dimensioni, fino a convertirsi in una vera e propria “ossessione” per le corti europee.

Come si sa, il giudizio dell’autore nei confronti dell’autocrazia (e dei russi in generale) non era precisamente lusinghiero, tanto da etichettarla come “fantasma di potere”. La parte più interessante delle sue considerazioni, però, riguarda la natura stessa del sistema di comando russo e le sue origini storiche e ideologiche.

L’analisi gli valse l’ostracismo dello stesso Stalin che, nel 1933, interruppe la pubblicazione delle opere complete di Marx e Engels quando inciampò su questo libello che faceva traballare le fondamenta del canone storiografico ufficialmente imposto. E allora, cosa aveva scritto Marx nel 1857?

Origini della Russia moderna

Che le origini della Russia moderna non andavano ricercate nella Rus’ vichinga di Kiev ma nel dominio tataro, non nell’epoca eroica dei popoli del Nord ma nel “sanguinario degrado della schiavitù mongola”. I principi di Moscovia, da Ivan Kalita I che fece di Mosca la capitale a Ivan III che vinse gli invasori asiatici, rappresentarono il “machiavellismo dello schiavo che desidera usurpare il potere”.

Alla fine del XV secolo non ebbe luogo una liberazione dal giogo mongolo ma una semplice sostituzione al vertice, senza soluzione di continuità. Lo schiavo improvvisamente prese a comportarsi come il signore di prima, che lo aveva soggiogato e da cui aveva appreso l’arte della sottomissione.

Nel momento in cui il principato di Moscovia conquistò la propria indipendenza formale, applicò ai propri vicini lo stesso regime dispotico a cui aveva dovuto sottostare: cominciarono gli attacchi alle repubbliche vicine (Novgorod, i cosacchi, i polacchi). La Russia moderna, sosteneva Marx, altro non era che “una Moscovia trasfigurata”.

Pietro il Grande

Pietro il Grande ereditò i metodi di governo dei principi medievali e li estese all’intero territorio russo, generalizzando il sistema di usurpazione che i moscoviti applicavano su scala locale.

Sintesi di schiavitù e dominio, il suo impero reclamava territori e sbocchi al mare, in una guerra di conquista permanente e immanente: prima contro i turchi per il Mar d’Azov e il Mar Nero, poi contro gli svedesi per il dominio del Baltico, infine contro i persiani per il Caspio.

Spostando il centro del potere a Pietroburgo, lo zar e imperatore recise i legami atavici della razza russa con l’interno del Paese e ne dirottò le ambizioni sul mare. Doveva cambiarne quella che qualcuno definirebbe la “cifra antropologica” senza rinunciare all’assolutismo di matrice mongola.

Realizzò allora un’operazione cosmetica senza precedenti, rivestendo di una patina occidentale le sue ambizioni asiatiche: attraverso una sterminata corte di “burocrati, maestri e sergenti” diede ai russi “gli strumenti tecnici dei popoli d’Occidente senza che assorbissero le loro idee”. La civiltà europea come mezzo, mai come fine.

L’analisi di Marx termina con il Trattato di Parigi che pone fine alla guerra di Crimea, provocata dall’ennesimo tentativo espansionista panrusso. Ma noi possiamo continuarla da dove lui l’ha lasciata.

Schiavo e padrone

La duplice identità di schiavo e padrone caratterizzerà la storia russa fino alla caduta dello zarismo, mantenendola incatenata ad un autoritarismo di Stato che non abbandonerà praticamente mai, nemmeno in epoca contemporanea, con la breve eccezione dell’ultimo decennio del secolo scorso.

A Nicola II, l’ultimo dei successori dei principi di Moscovia, si sostituiranno i bolscevichi, carnefici della famiglia reale e del popolo russo. Ma la dannazione della schiavitù mongola si imporrà ancora una volta alla pretesa di scatenare la rivoluzione proletaria mondiale: la dittatura del proletariato si risolverà fin dai primi vagiti della nuova era nel monopolio del partito unico al potere. Le porte della prigione comunista resteranno chiuse durante 74 anni.

La riconquista

Il 24 febbraio 2022 Vladimir Putin lanciava l’invasione dell’Ucraina con un discorso che rivendicava l’impero perduto e l’appartenenza al Russkij Mir dei territori resisi indipendenti dopo la caduta del moloch sovietico.

Il 9 giugno scorso, in conferenza stampa, evocava la “riconquista” dei territori baltici di Pietro il Grande paragonandola alla “operazione speciale” in corso, destinata a riunire in una sola nazione russi e ucraini. Putin considera se stesso l’ultimo in ordine di tempo tra i sovrani di Russia, passati al setaccio del dispotismo orientale. E noi qui a chiederci se si fermerà al Donbass.

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