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L’isteria antipopulista genera mostri, anche quando non ci sono: il caso britannico

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C’è gran fermento in giro per l’Europa perché alla Lega di Salvini in Italia, ad Alternative für Deutschland in Germania, al Front National di Marie Le Pen in Francia e ai sovranisti d’Ungheria e Polonia si sono aggiunti da domenica sera gli spagnoli di Vox, giunti terzi nell’ultimissima tornata elettorale. Ancor prima che l’esito delle urne risultasse chiaro, le opinioni si rincorrevano denunciando come il rigurgito fascista avesse lasciato il segno anche nella penisola iberica. Vox è un movimento nazionalista, decisamente conservatore sui temi sociali e apertamente centralista: si oppone con forza alle istanze indipendentiste catalane, così come rivendica la sovranità su Gibilterra. Non è un cliente facile da gestire e da interpretare (con una nostalgica vena franchista), di certo è uno di quelli che sta creando forti mal di pancia nelle correnti europeiste che faticano a contrastare l’euroscetticismo con connotati populisti.

Negli ambienti liberal-progressisti l’etichettatura degli avversarsi avviene piuttosto facilmente, così come altrettanto semplicemente gli stessi circoli dell’intellighenzia indicano quali tratti dovrebbe avere una destra per essere presentabile: una copia-carbone della sinistra, tradendo così un nervosismo che a tratti si trasforma in un’isteria che impedisce di analizzare il tema da una prospettiva più ampia. È accaduto anche con Brexit – o forse è cominciato tutto lì, prima ancora della vittoria di Donald Trump in America – ma l’evolversi della campagna elettorale britannica dimostra che le apparenze ingannano.

La vittoria del Leave venne sin dall’inizio considerata come il successo di un fronte anti-immigrazione, isolazionista e reazionario e la sentenza fu rapidamente depositata agli atti. Ma scorrendo le ultime notizie che giungono dal Regno Unito e le performance suggerite dai sondaggi, per quanto da prendere sempre con le pinze, salta agli occhi come dal 2016 ad oggi in Oltremanica i partiti tradizionali, su cui poggia da decenni il sistema parlamentare di Westminster, abbiano retto all’urto, magari un po’ ammaccati (soprattutto alle ultime Europee, quando i britannici sono stati chiamati a votare per un’istituzione dalla quale sarebbero dovuti già uscire un paio di mesi prima), ma non ribaltati. Ne è dimostrazione per esempio la decisione di Nigel Farage di non presentare i candidati del Brexit Party nei seggi che nel 2017 furono vinti dai Conservatori.

Una mossa che può essere letta con due interpretazioni: da una parte la volontà di non frammentare il bacino di voti del Leave, dall’altra la presa di coscienza che alle General Election il suo partito non troverebbe spazio. Brexit Party non è dato oltre il 10 per cento e in un sistema elettorale puramente maggioritario ciò significa ritrovarsi con un pugno di mosche in mano. Un destino che lo accumunerebbe all’esperienza dello UKIP, lo United Kingdom Independence Party che proprio con Farage aveva ottenuto visibilità mediatica, ma senza i numeri alla conta finale. Si attende di capire se Boris Johnson ordinerà ai suoi di fare altrettanto, di non schierarsi nei seggi del Nord in mano sì ai Laburisti, ma che al referendum di tre anni e mezzo fa si erano espressi per il divorzio da Bruxelles, concedendo ai delusi di Jeremy Corbyn la possibilità di votare per i candidati di Farage anziché per gli odiati Tories, sottraendo consensi ai diretti rivali. Un mero calcolo politico in cui le proiezioni danno Brexit Party a zero seggi, lo UKIP – o ciò che ne resta – disperso e il British National Party, di estrema destra, fuori dai radar. Eppure Brexit era stata dipinta come la rivolta populista all’immigrazione.

Farage è un nostalgico dell’Old England e non tanto quella thatcheriana quanto quella degli anni 50 dai flebili tratti imperiali, un broker come da curriculum vitae che punta e poi scarica se vede che ci perde: ha corteggiato anche il Movimento 5 Stelle a Bruxelles, quindi ha chiuso i rapporti. È un volto e una voce, una postura e uno stile di abbigliamento, ma non porta con sé una consistente dote elettorale. Johnson, ritratto come uno sciagurato scapigliato inconcludente e arrivista, punta a portare il Regno Unito Out of Europe and into the world, non a chiuderlo in se stesso. Prima che si spendesse per Brexit, era indicato come un esponente della corrente più liberale del partito: nel 2001, da direttore dello Spectator, portò avanti la richiesta di amnistia per gli immigrati illegali, spesso privi di documenti per colpa anche delle peripezie della burocrazia dopo anni trascorsi a lavorare in attività artigiane e commerciali. E un’indagine del Pew Research Centre dello scorso marzo indica come la maggioranza dei britannici consideri l’immigrazione un valore aggiunto per l’economia del Paese, al pari della tollerantissima Olanda.

Perché non è populismo tutto quello che rigurgita.

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