MediaTwitter Files: la censura social

Sotto accusa Musk, ma nessuno si preoccupa della vera minaccia: TikTok

Musk diventa un sorvegliato speciale, con la più terribile delle accuse: non essere un Democratico. Ma TikTok è un problema vero, non una fissazione progressista

Media / Twitter Files: la censura social

Nel 2018 una serie di articoli sulle principali testate internazionali, tra cu il Wall Street Journal, erano intitolati “Elon Musk si confronta con il suo peggior nemico: sé stesso”. A quei tempi i giornalisti italiani lo conoscevano poco e ci risparmiarono i copia-traduci-incolla nazionali.

Il super-ego di Musk

Il Journal prendeva spunto da un episodio marginale avvenuto in una fabbrica Tesla (una linea di produzione bloccata per questioni di sicurezza, cosa che rese Musk furioso) per dipingere l’immagine di una persona inaffidabile, guidata dal proprio ego, refrattaria alle regole di sicurezza e probabilmente destinato a portare Tesla al fallimento.

Tralasciando l’epico commento da parte del fondatore di Oracle, Larry Ellison (“Chi sei tu – giornalista del WSJ – per affermare che Musk è incapace, un idiota? Quest’uomo ha creato un’azienda in grado di lanciare razzi, recuperarne i componenti facendoli atterrare su un drone in mezzo al mare. E tu? Io vorrei sapere cosa tu hai realizzato nella tua vita, per capire se devo ascoltare te o lui”) … tralasciando per ora Ellison, facciamo solo notare come dalla data dell’articolo ad oggi i ricavi di Tesla siano passati da 21,5 a oltre 53 miliardi di dollari.

Raccontiamo questo episodio perché quanto sta avvenendo oggi con il trattamento riservato a Musk dalla stampa (italiana ed estera) ricalca in parte il mood del 2018, esacerbato questa volta dalla più terribile delle accuse: non essere un Democratico (che è come dire progressista, di sinistra ed ecologista).

Ironico, per la singola persona al mondo che più ha fatto per ridurre le emissioni di Co2 (senza la concorrenza di Tesla i grandi marchi automobilistici mondiali non avrebbero certo investito seriamente sulla mobilità elettrica).

Ma concentrando tutte le paure su Musk e su Twitter si perde di vista il vero problema di oggi, già ben evidenziato e combattuto da Donald Trump nel 2020: il continuo crescere dell’influenza della app cinese TikTok, sulla quale gravano pesanti sospetti di essere un veicolo di controllo globale a disposizione del governo di Pechino. Un problema sul quale il presidente Joe Biden sembra aver deciso di soprassedere.

Musk sorvegliato speciale

Cominciamo da Musk. Come sappiamo da quando ha annunciato l’intenzione di acquisire Twitter è partito il coro delle opposizioni “progressiste”. Il ragionamento ci è sempre parso poco solido.

Essendosi dichiarato favorevole al free speech, dunque presumendo che il nuovo capo avrebbe ridato la parola, tra gli altri, all’ex presidente degli Stati Uniti, la democrazia stessa sarebbe stata minacciata, in quanto avrebbero avuto spazio anche i supporter più fanatici di Trump. Che ovviamente non possono affermare che falsità.

Nulla però si è realizzato e anche dopo l’acquisizione Trump risulta “bannato”. Ma ciò nonostante il coro ha ottenuto per ora ottimi risultati.

Un articolo di Bloomberg del 21 ottobre racconta infatti che l’amministrazione Biden potrebbe effettuare una “National security review” sulle attività globali di Musk, tra cui il supporto dato da Starlink alle truppe ucraine (che però sono supportate anche dall’amministrazione stessa, dunque “where is the point?”).

Segue il vero presunto problema: l’amministrazione si chiede “whether any of Musk’s foreign investors would have special privileges to access personal data about Twitter’s users”, se gli investitori stranieri del deal possono aver accesso a dati personali riguardanti gli utenti di Twitter.

Secondo Al Jazeera, la holding KHC, insieme al family office del principe Alwaleed bin Talal, sarebbe infatti il secondo azionista con “quote valutate 1,89 miliardi di dollari”. Prendiamo la calcolatrice: 1,89 / 44 = 4,29: dovrebbero dunque possedere il 4,3 per cento delle azioni. Difficilmente un azionista determinante (almeno a guardare la forma).

L’altro sospetto è il governo cinese: la seconda potenza fornisce infatti alcune (o molte) parti necessarie alla produzione dei veicoli Tesla, un’accusa pesantissima.

Un ulteriore risultato (almeno provvisorio) del coro riguarda gli inserzionisti: da qualche giorno la stampa afferma che General Motors, Volkswagen, Prizer e perfino Dyson avrebbero congelato gli investimenti pubblicitari sulla piattaforma al fine di “valutare la situazione”.

Il problema vero: TikTok

Ma torniamo a TikTok che a nostro avviso è invece un problema vero, non una fissazione progressista. Innanzitutto, su questo servizio tutte le informazioni e i dati personali transitano o sono apparentemente (ma vedere oltre) memorizzati su server localizzati in Cina e dunque accessibili al governo cinese a semplice richiesta.

“Gli ingeneri cinesi hanno accesso ad ogni cosa”, è emerso infatti da alcuni leaks riportati in giugno da Buzzfeed.

Sorveglianza diretta

E qui occorre fare un importante inciso: non si tratta solo di nomi, numeri di telefono e video di felini: secondo molti studiosi la app di TikTok sta “raccogliendo dati sui movimenti di specifici utenti, cittadini statunitensi sui quali viene effettuata una sorveglianza diretta”.

La società si difende affermando che questo serve per fornire pubblicità mirata, ma è chiaro che se la funzionalità è presente, esiste la possibilità (ma ci viene da dire la probabilità) che questa venga utilizzata anche a fini strategici e politici.

L’amministrazione Trump aveva cercato nel 2020 di bloccare TikTok, imponendo come condizione per poter continuare ad operare la vendita degli asset a un’azienda statunitense (che sarebbe poi risultata essere la Oracle di Larry Ellison di cui abbiamo parlato all’inizio). Pur essendo un decreto del presunto uomo più potente del mondo nulla accadde, anche a causa delle fortissime critiche ad opera di “circoli progressisti”.

Il ruolo di Oracle

A sentire alcune voci parrebbe che comunque TikTok stia oggi effettivamente utilizzando l’infrastruttura cloud di Oracle. Il tutto sarebbe parte del progetto Texas, sponsorizzato dall’attuale amministrazione.

E potrebbe anche essere vero, considerato che – in base alle analisi di Charles Fitzgerald, strano personaggio che da anni segue gli investimenti in CAPEX dei vari cloud provider – proprio nel 2021 la società di Ellison ha iniziato a investire seriamente in server e dischi fisici (precedentemente il cloud di Oracle era quasi solo powerpointware, fumo negli occhi)

Ma c’è un problema, che forse sfugge al poco tecnologico presidente degli Stati Uniti: in un altro leak emerso recentemente, il responsabile della “difesa dei dati” di TikTok avrebbe affermato che il ruolo di Oracle sarebbe di fornire “bare metal”, soltanto infrastruttura.

Perché ovviamente, il solo fatto che i dati risiedano su memorie o dischi fisicamente in una certa nazione non implica affatto che questi non siano accessibili da altre parti del mondo (soprattutto da parte di chi è il cliente del servizio). Problema analogo a quello che si era presentato agli europei all’atto di partorire il terribile GDPR.

Chi preoccupa di più, Twitter o TikTok?

Possiamo dunque riassumere la situazione in questi termini: da un lato abbiamo Twitter, un social il cui proprietario ha affermato di voler “rendere pubblico l’algoritmo” e di voler dare entro i limiti di legge la parola a tutti. Dal quale ci invitano a tenerci alla larga.

Dall’altro c’è TikTok, un sistema manipolativo a vari livelli (ci torneremo) per nulla trasparente e la cui base utente a livello globale sta crescendo a ritmi vertiginosi. Che viene visto quasi favorevolmente, in quanto concorrente di Zuckerberg e i suoi social.

A noi preoccupa il secondo, e vorremmo tanto che chi è preoccupato solo per il primo fosse in grado di spiegarne razionalmente il motivo. In ogni caso, riteniamo che le previsioni di un fallimento di Musk – c’è chi parla di rapido svuotamento di utenti e inserzionisti della piattaforma – rischiano di finire come quelle di Higgins, Mickle e Windler, gli autori del pezzo del WSJ con il quale abbiamo aperto.

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