Politica

Chi vince, governa. Troppo semplice per chi vuole truccare la partita

Il suicidio assistito della democrazia: o il voto torna ad essere determinante per formare i governi, o non sorprenda che gli elettori perdano fiducia nel sistema

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Molti anni orsono, quando si voleva scherzare sulle inutili complicazioni della burocrazia, si diceva: “Questi sono dell’U.C.A.S.” e l’acronimo voleva dire Ufficio Complicazione Affari Semplici. Scorrendo le rassegne stampa di questi giorni, con l’infinita congerie di teorie più o meno astruse sulla possibile composizione del governo che, almeno si spera, prenderà vita in autunno, verrebbe da dire che il famigerato UCAS sia stato rispolverato.

Il suicidio assistito della democrazia

La Costituzione è chiara: il popolo vota e di formare il nuovo governo viene incaricato chi rappresenta la formazione politica uscita vincente dalle urne. Se si dimenticassero queste elementari linee guida si correrebbe il rischio di perpetuare l’obbrobrio giuridico al quale abbiamo assistito, fin troppo rassegnati, nell’ultimo decennio.

La colpa, in fondo, è anche di noi tutti gli elettori, senza i quali non esisterebbe il Parlamento. Siamo terra-terra, e andiamo al sodo: cos’è accaduto negli ultimi anni di tanto grave da relegare le Camere ad un ruolo meramente consultivo o ratificatore di decisioni prese da non eletti? Tante, in una sequenza disordinata, nelle quali alcuni vedono il grande complotto internazionale ed altri, un po’ banalmente, parlano di non meglio esplicati vuoti legislativi, nonostante di leggi costituzionali ne abbiamo anche troppe.

Altri ancora, di solito facenti parte della spocchiosa categoria degli analisti politici di professione (bada bene: televisiva e ben retribuita) provano a raccontarci la storiella dei “tempi troppo cambiati da quelli di Costantino Mortati”, magari rinforzando la dose con l’inevitabile constatazione del “diverso contesto” attuale, condendo la pessima brodaglia finale con l’inevitabile cretinata del “tutti allenatori, tutti genetisti, tutti presidenti” e, guarda caso, senza mai ascrivere loro stessi alla categoria dei commentatori da bar. Loro sanno.

Sempre facendo riferimento al passato, gli intellò del Novecento amavano dire spesso: ”Non v’è chi non veda…” questo o quello. Se volessimo oggi ricorrere ancora a tale paradosso retorico potremmo chiederci: “Ma vi sono o non vi sono quelli che non vedono? E non sarà mica che facciano finta di non vedere?”, forma edulcorata del popolare “ma ci sei o ci fai?”.

Temo che dalla risposta a quest’interrogativo dipenda tanta parte della possibile spiegazione al suicidio assistito della democrazia che stiamo mettendo in atto. Forse bisognerebbe utilizzare strumenti non ancora inventati per sapere quanti ci sono e quanti ci fanno, perché nelle teste altrui nemmeno Freud è riuscito ad entrarci del tutto, ma sta di fatto che qualcuno sta barando pesantemente, o col prossimo o con se stesso.

L’inutile complicazione sistemica

La politica, si sa, non è certamente raffigurabile con una linea retta, ma non mi si venga a dire che tra il punto A ed il punto B la via più conveniente possa mai essere quella che balza e rimbalza tra tutte le lettere dell’alfabeto, come una bilia impazzita sul panno verde. Tutti esperti giocatori del tiro d’acchito, di sponda o di rinculo? Parrebbe di sì, anche se i biliardi sono scomparsi dai bar da decenni.

Non è possibile, oltre che non tollerabile, assistere impotenti a tanta inutile complicazione sistemica che rende tutto maledettamente difficile. Troppo impegnati ad aggrovigliare sempre più la matassa, piuttosto che cercare di dipanarla, abbiamo dato inizio ad un vortice che ci sta inghiottendo nella pericolosa ricerca di una via di uscita dal labirinto che abbiamo costruito con le nostre mani, principalmente, coi nostri voti dati alle persone sbagliate in assoluto, al di là del loro schieramento politico.

Come nel labirinto a vetri e specchi dei luna park di una volta, prenderemo tante, ma tante di quelle testate da rimanere storditi ed ancor più confusi, caratteristiche che non giovano di certo quando ci vorrebbe lucidità e freddezza.

Il voto non è un obbligo

Personalmente, sono talmente convinto che, una volta scelta la democrazia rappresentativa, almeno per coerenza, si debba considerare il voto come il fondamento di tutto l’edificio, che non me la sento nemmeno di condannare chi decida di non andare a votare il 25 settembre prossimo.

È vero: l’art. 48 Cost. sancisce che il voto è un dovere civico, ma non è un obbligo nel senso impositivo del termine. Non dimentichiamo, infatti, che già 1993 è stato abrogato l’art. 115 del T.U. del 1957 che comminava sanzioni per chi non si fosse recato al voto e non è stata scelta di poco conto. Una cosa è l’obbligo e altra il dovere civico. Ne abbiamo altri di doveri civici; li rispettiamo forse tutti? In un Paese altamente civile ciò che non sia vietato dovrebbe essere liberamente concesso a chiunque.

Ciò nondimeno, sarebbe altamente auspicabile che tutti vadano a votare, oltre che per rispetto del principio di democrazia rappresentativa che ci siamo dati, ma persino perché, almeno in teoria, possa cambiare qualcosa di questo quarantotto generalizzato.

Come possiamo condannare (ove la norma penale non lo fa) quegli elettori che siano, allo stesso tempo, da una parte stufi di essere chiamati a pronunciarsi su questioni assolutamente non sentite dalla maggioranza degli stessi – parlo dei referendum, che pochissimi capiscono e/o ritengono determinanti – e, dall’altra, hanno ormai capito che con il solo voto alle politiche si ottiene ben poco.

O il voto torna ad essere determinante per formare i governi (e devono farlo loro, e non noi elettori) oppure si smetta di fare la morale a chi non va più a votare. Sommessamente, vorrei ricordare ai tanti paladini della legalità e della caccia all’astensionista, che ciò che la norma penale non vieta espressamente, e con un provvedimento che sia entrato in vigore prima che venga compiuta una data azione, è assolutamente lecito. Si chiama “principio di legalità” ed è un caposaldo di civiltà giuridica in ogni Stato rispettabile.

Su questo punto, ossia sulla netta divisione tra lecito ed illecito, sarebbe bene ricordare che in nessuna democrazia che sia tale è previsto il “comportamento raccomandabile” o quello “da ritenersi opportuno”. È prerogativa fondamentale della democrazia che ciascuno sia libero di fare ciò che preferisce, se non sia previsto dalla legge come reato e se non rechi danno diretto ad altri.

Questi politici moralisti e impiccioni, sempre pronti ad ergersi a custodi dell’etica e sempre prodighi a dirci cosa dobbiamo fare persino nell’ambito delle nostre più sacrosante libertà personali, tacciano, almeno su questo, una volta per tutte e pensino a ciò che hanno combinato per anni prima di ammannirci l’ennesima lezioncina morale sui civici doveri.

Non dimentichiamo nemmeno gli elettori ai quali le cose piacciono esattamente come stanno adesso, e non sono così pochi. Avranno la loro convenienza e sono anche loro italiani, facciamocene una ragione. Non possiamo essere inclusivi a corrente alternata. Per amore di completezza, mettiamoci anche quelli che, da sempre, votano bovinamente. Anche quelli ci sono e fanno parte del corpo elettorale. È la storia del mondo. Possiamo forse cambiarla?

Basta strategie elettorali opache

Ma, se proprio un “basta” siamo legittimati a dirlo, esso sia per le strategie elettorali contorte e del tutto non illustrate chiaramente agli elettori, i quali, alla fine, si dimostrano assai meno fessi di quanto ritengano loro. Stiano o di qua o di là, e ricordino che stare all’opposizione è un nobilissimo ed indispensabile ruolo parlamentare.

Si badi al sodo: prenderà voti chi sembrerà più credibile (compresi i voti di protesta, dati per rabbia, che esisteranno sempre) e chi vince governi senza tante palle, assumendosene l’onore e l’onere. Anche da soli, se avranno i numeri che i bizantinismi delle regole elettorali che continuano a modificare in peggio, anno dopo anno, lo permetteranno.

E se qualcuno non si riconosce più in un partito ne esca, senza tante manfrine ed excusatio non petitae, come chi si renda conto di avere preso voti all’interno di partiti dissolti nel nulla, magari, se ne assuma la responsabilità e cambi mestiere. Ammesso che ne sappia fare un altro.

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