Politica

Diario della crisi

Cronaca di una crisi di mezza estate: di tutto pur di evitare elezioni anticipate

Il rischio che dopo i tempi supplementari si arrivi a lanciare la monetina pur di evitare le elezioni. L’agenda 5 Stelle una sciagura per il Paese

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Questa volta, sembrava che l’esperienza del governo dei migliori fosse arrivata davvero al capolinea. Mario Draghi, tenendo fede a quanto dichiarato in precedenza, ha preso atto della mancata partecipazione al voto di fiducia al Senato dei gruppi pentastellati e ha rassegnato le dimissioni essendo “venuto meno il patto di fiducia alla base dell’azione di governo”.

Tradotto: non ci sono più le condizioni per proseguire. Una tale presa di posizione non lascerebbe margini neppure per provare a ricostituire una maggioranza, coerentemente con quanto già affermato dallo stesso premier quando ha escluso un bis del suo Esecutivo.

Eppure, il presidente della Repubblica ha respinto le dimissioni e ha invitato il governo a presentarsi in Parlamento mercoledì per riferire sulla situazione determinatasi nella maggioranza dopo il voto a Palazzo Madama.

In pratica, la partita va ai tempi supplementari, come aveva pronosticato il ministro Giancarlo Giorgetti.

La narrazione melodrammatica

Sembra di rivivere i giorni che segnarono la fine del secondo governo Conte e che poi, falliti tutti i tentativi disperati di tenere in piedi la maggioranza, portarono all’avvicendamento a Palazzo Chigi. Infatti, le forze politiche che vedono le elezioni anticipate come una iattura già sono al lavoro per utilizzare al meglio il tempo che le separa dal dibattito parlamentare.

Particolarmente attivi i dimaiani e il segretario del Pd, Enrico Letta che, nell’immediatezza della crisi, ha scritto un tweet dai toni palpitanti: “Ora ci sono cinque giorni per lavorare affinché il Parlamento confermi la fiducia al Governo Draghi e l’Italia esca il più rapidamente possibile dal drammatico avvitamento nel quale sta entrando in queste ore”.

Naturalmente, il refrain è sempre lo stesso: appena si paventa l’ipotesi del voto anticipato, parte la narrazione melodrammatica. Pure il ministro Luigi Di Maio ha usato un registro quasi churchilliano, da ora più buia: “È il momento della maturità e del senso di responsabilità. Non possiamo permettere che l’Italia vada incontro a un collasso economico e sociale”. È chiaro che il “drammatico avvitamento” unito al “collasso economico e sociale” non giocano a favore del voto anticipato.

L’unica via d’uscita: il voto

Eppure, c’è un aspetto di questa crisi di mezza estate che sembra essere ignorata dalla maggior parte degli osservatori: il Parlamento in carica non è più rappresentativo della volontà popolare.

Alle preoccupazioni sbandierate da più parti circa la necessità di evitare la caduta dell’Esecutivo con la guerra in Ucraina ancora in corso, con le pesanti conseguenze economiche del conflitto da tenere a bada, con l’inflazione galoppante, con i fondi del Pnrr da gestire, con i contagi in risalita, bisognerebbe contrapporre un principio fondamentale di qualsiasi democrazia: l’esatta corrispondenza tra le intenzioni del corpo elettorale e la rappresentanza parlamentare.

Da questo punto di vista, non vi è dubbio che il crollo del Movimento 5 Stelle, passato dal 33 per cento a un terzo dei voti ottenuti nel 2018, è un vulnus che va sanato. Per di più, anche dopo la scissione dal gruppo grillino, Luigi Di Maio continua a occupare la poltrona di ministro degli esteri pur non avendo più la legittimazione politica del partito di maggioranza relativa.

Perciò, la via d’uscita di questo cul de sac in cui si è infilata la maggioranza non possono che essere le elezioni, anche perché restituirebbero un minimo di chiarezza e coerenza alla nostra democrazia. Non si possono più prefigurare scenari apocalittici ogni volta che prende corpo la possibilità di sciogliere in anticipo le Camere e rimettersi al giudizio degli elettori.

Azione di governo esaurita

D’altronde, i segni di disfacimento della maggioranza sono evidenti da tempo. Solo il timore della maggior parte dei parlamentari di dover abbandonare il proprio scranno ha permesso a una coalizione ampia, disomogenea e litigiosa di reggere.

Peraltro, era stato lo stesso Draghi a ritenere esaurita l’azione del suo governo quando, poco prima di Natale, ambiva a salire sul Colle più alto. La mancata elezione al Quirinale doveva servire a puntellare il governo, invece ha rappresentato un’altra mina sul percorso accidentato dell’Esecutivo.

L’improvviso scoppio della guerra in Ucraina lo ha tenuto in piedi anche se poi i partiti sono entrati in modalità campagna elettorale con tendenze sempre più frequenti a smarcarsi dall’azione dell’esecutivo. Draghi ha tentato di chiudere tutte le falle ma, alla fine, si è dovuto arrendere ai penultimatum del suo predecessore.

Prendere atto della fine

Senza considerare che un’altra agenda dettata dal Movimento 5 Stelle sarebbe una sciagura per il Paese che deve uscire dalla logica assistenzialista di bonus e mancette che deprimono l’economia, aumentano il debito e non aiutano certo la crescita.

Insomma, la pax di governo avrebbe un ulteriore costo assai rilevante per le casse pubbliche. Tralasciando pure il prezzo che è stato pagato all’intransigenza del ministro della salute che ha imposto all’esecutivo tutta una serie di norme liberticide sconosciute nel resto del mondo occidentale e, nonostante ciò, si ritrova sempre a rincorrere affannosamente una nuova variante.

Allora, sarebbe preferibile prendere atto che il governo nato per gestire l’emergenza sanitaria e i fondi europei del piano di rinascita è arrivato alla fine del suo percorso (con risultati non proprio lusinghieri per giunta). Così come è giunta l’ora per i partiti di affrancarsi dai commissari esterni e di riprendere la normale dialettica democratica.

Anche se, da noi, il rischio concreto è che, ai tempi supplementari, seguano i calci di rigore. E che, in caso di ulteriore parità, non resti che lanciare la monetina pur di evitare le elezioni. Prolungare l’agonia di una legislatura ormai conclusa, quella sì che sarebbe una vera catastrofe per il Paese.

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