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La regia raffazzonata del vero burattinaio della legislatura

Le forzature istituzionali di Mattarella: la pregiudiziale verso il centrodestra e un accanimento terapeutico pro-Pd che ha aggravato il paziente Italia

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Non stupisce affatto che vi sia una tendenziale convergenza dell’opinione dominante, quella che rimbalza da una grande testata della carta stampata o della televisione ad una altra, sull’essere la legislatura inaugurata nel 2018 la peggiore a memoria della gente; ma ben diversa è l’attribuzione della responsabilità, scaricata sui condizionamenti istituzionali ormai cronici e/o sui successi dei movimenti populisti, i 5 Stelle e la Lega.

Le responsabilità di Mattarella

Quasi nessuno lo dice apertamente, perché si tratterrebbe di intaccare il dogma salvifico di un Mattarella che si sarebbe offerto in olocausto per un riscatto del Paese, ma, il solo conto dei governi da lui benedetti – Conte 1 e 2, Draghi – con un accanimento terapeutico destinato ad aggravare il paziente, ridotto ormai ad un cronico stato di agonia, la dice lunga sul modo raffazzonato con cui ha svolto il suo ruolo di regista istituzionale.

Le ragioni esplicite fatte valere a suo nome, riprese ed esaltate dagli opinionisti “responsabili”, sono state due, una costituita da una interpretazione delle prerogative presidenziali circa l’affidamento dell’incarico per la formazione di un governo; l’altra rappresentata dalla copresenza di due emergenze, sanitaria ed economica sociale, cui far fronte con il ricorso al Pnrr.

Nonostante Matterella abbia a proposito del Conte 1 e 2 parlato della necessità di maggioranze omogenee, non sembra proprio che se ne sia fatto carico, gli era d’avanzo una mera maggioranza numerica, pur tale da riuscire già in partenza del tutto incompatibile.

A meno non si sostenga, a discapito della parabola ormai compiuta, che i 5 Stelle, completamente privi di una loro identità interna, quindi scomponibili e ricomponibili a piacere, potessero trovarsi pienamente a loro agio con due partners del tutto opposti, come la Lega, prima, e il Pd, poi.

Insomma, il nostro Mattarella ha legittimato una interpretazione per cui di fronte ad una mera maggioranza, per quanto scombinata ed artificiosa, avesse le mani completamente legate, non poteva sciogliere le Camere, ma solo chinare la testa.

Una tesi, questa, che non trova nessuna conferma nella nostra carta costituzionale, se interpretata con la dottrina prevalente, ma neppure nella prassi, tanto che lo stesso Mattarella non si è affatto dimenticato delle sue prerogative circa la formazione del governo, bocciando alcune candidature ministeriali ritenute incompatibili con la sua valutazione politica.

Il ventennio del Pd al Quirinale

In fondo contava di sfangarsela anche questa volta, con una maggioranza raccogliticcia, cui non guardare troppo per il sottile, all’insegna dell’adda passà ‘a nuttata, che, però, risponde ad una precisa strategia ben evidente nella stessa elezione e rielezione di Mattarella.

Intanto, va enfatizzata la rottura di una prassi fatta propria dalla costituzione materiale, cioè di una alternanza nella copertura della suprema carica della Repubblica, se si guarda agli ultimi eletti, almeno tre, Scalfaro, Napoletano, Mattarella, caratterizzati da una pregiudiziale verso il centrodestra, gli ultimi due addirittura espressione del “vecchio” e del “nuovo” partitone, all’insegna di un mitizzato continuismo.

Se si tiene conto del mandato prorogato di Napolitano e del mandato bissato di Mattarella, il conto è presto fatto, più di un ventennio ipotecato da un uomo del Pd, che non si può ingenuamente pensare si faccia di un tratto dimentico del suo credo e del suo referente principale.

La pregiudiziale verso il centrodestra

Tutto sta nella natura e consistenza di questa pregiudiziale verso il centrodestra, che ha reso e rende strabico lo sguardo dei presidenti figliati dal Pd, cioè la non idoneità di questo centrodestra a governare, secondo una valutazione che degrada la sua eventuale vittoria elettorale ad una pericolosa infatuazione “populista”, parola di per sé evocatrice di una ondata protestataria irrazionale e irresponsabile.

Sì, ché diventa una qual sorta di regola prioritaria quella di evitare al limite dell’impossibile il ricorso alle elezioni politiche, nella speranza che, nell’attesa della fisiologica scadenza della legislatura, la coalizione progressista diventi competitiva, nel mentre la bolla della coalizione populista si sgonfi proprio in relazione all’aggravarsi della doppia emergenza sanitaria ed energetica.

Non ha funzionato, tanto che vien da chiederne conto al vero burattinaio, quel Mattarella di cui i grandi giornali temono addirittura di farne il nome, relegandolo ad un mero notaio certificatore degli equilibri parlamentari.

Dal Conte 1 e 2 a Draghi

Non sarebbe stato più serio sciogliere le Camere, a fronte di quell’autentica barzelletta istituzionale, di un paio di compari, Di Maio e Salvini, fino ad allora sempre pronti alle mani, che, in una camera d’albergo, in genere destinata a qualche incontro più rilassante, scelgono uno che si trovava a passare lì accanto, Conte, per fargli fare il primo ministro?

Ma fosse finita lì… La barzelletta è diventata surreale, quando l’improvvisato presidente del Consiglio si è visto riconfermato quando una nuova accoppiata di birboni, Di Maio e Letta, anch’essi freschi di infamanti offese reciproche, han fatto comunella, per cercare di salvarsi alla fine con la poca commendevole ricerca di “responsabili” atti a tamponare una maggioranza in liquidazione.

Perché non rassegnarsi, e chiamare in causa Draghi? Resta il sospetto che a questo punto fosse in gioco l’obiettivo principale del centrosinistra, cioè di poter contare su un Parlamento, per quanto “delegittimato” dalla riforma costituzionale, governabile con riguardo all’elezione del prossimo presidente della Repubblica.

La duplice ferita della rielezione

Non credo che Mattarella pensasse all’inizio a se stesso, altrimenti dovrei farlo un commediante assai raffinato, ma ha cominciato a crederci cammin facendo, fino ad arrendersi per “spirito di servizio”. Non senza una duplice ferita fatta a se stesso e alla Costituzione: di non essere una persona di parola, a conferma della scarsa credibilità della nostra classe politica; di trasformare una carica prevista in sette anni – termine così pensato per non condizionare la durata della legislatura di elezione – in una carica potenzialmente rinnovabile a vita come nelle autocrazie.

Il clima alimentato dal Pd

Si deve uscire dall’atmosfera di ultima spiaggia che pare investire un intero Paese, coinvolto dal Pd e collaterali in una invocazione collettiva organizzata secondo una tecnica ben nota al PCI di un tempo, una vera e propria catena di San Antonio, per cui a conti fatti Draghi avrebbe dovuto restare a tutti i costi, cioè in soldoni rendendosi disponibile a qualsiasi tipo di maggioranza numerica, naturalmente costruita intorno allo stesso Pd.

Si prescinda dal fatto che la pausa elettorale sarà contenuta, non è affatto negativo che si abbia alla fine un governo eletto, che possa impostare la nuova legislatura con la predisposizione di una legge finanziaria sincronizzata con un Pnrr destinato a prolungarsi per un ulteriore triennio, 2023-26.

Resta pur sempre che si è potuto collocare sull’altare della patria sopravvivenza nazionale Mattarella, ma non sarebbe stato possibile farlo con Draghi, se non nei sogni ad occhi aperti di un centro spezzatino, da qui a pochi mesi lui avrebbe dovuto comunque tornarsene a casa.

Le ragioni di 5 Stelle e Lega

Recuperata una certa obiettività di valutazione è assai difficile imputare la crisi, per altro da sempre ribollente sul fondo della pentola, ad una sorta di follia populista, ogni forza politica aveva le sue buone ragioni che mescolavano insieme le ricette da utilizzare per il Paese e le convenienze da rispettare per il partito.

Ora, in una rapida sintesi, a cominciare da 5 Stelle e Lega, dileggiate come colte da improvvisa pazzia, certo non trovavano sufficiente spazio identitario in un programma appiattito sul c.d. essenziale, pagandone il costo in un decrescendo continuo del consenso, che li avrebbe fatti trovare esangui alla scadenza naturale della legislatura. Ci sarà stato un perché a crescere fosse chi stava fuori dalla coalizione, Fratelli d’Italia, e chi stava dentro, ma con l’etichetta di partito di Draghi, il Pd.

Che avrebbero dovuto fare i 5 Stelle, una volta uscita la componente pro-Draghi – che a posteriori può ben apparire una scelta suicida, rispetto sia alla prosecuzione dell’esperienza governativa sia alla sopravvivenza politica dei partecipanti – allinearsi dando a Di Maio & Co ragione?

A questo punto l’unica scelta che potesse salvare Conte da una morte per tisi era quella di recuperare parte della radicalità originaria, stabilizzando un consenso intorno al 12-14 per cento, da giocare in prima persona nel confronto pre-elettorale col Pd, emarginando del tutto i fuoriusciti.

E, a loro volta, cosa avrebbero dovuto fare Forza Italia e la Lega, a fronte di una occasione come quella loro offerta di campagna elettorale brevissima, tale da rendere difficile la realizzazione sia del chiacchierato “campo largo” sia del non meno chiacchierato “centro”, sfruttando la ricomposizione di una centrodestra ormai proiettato nell’essere tutto di governo?

Certo, si obietterà, ragioni di partito, non di Paese. Lo so, ma se si vuole è il tallone di Achille della democrazia, ma è su quel tallone che si regge, proprio perché il sistema non è a partito unico, interprete indiscusso e indiscutibile del bene comune.

Draghi da esempio a Mattarella

Da comune cittadino mi congratulo con Mario Draghi, per lo stile rivelato nel governo, dando e mantenendo sempre la parola, sì da poter essere di esempio all’attuale abitante del Quirinale: aveva detto che non si sarebbe dichiarato disponibile ad un governo diverso, lo ho confermato nella comunicazione e nella replica. Chapeau.

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