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La storia dei comunisti italiani uccisi da Stalin e il silenzio dei “compagni”

Cercavano il paradiso dei lavoratori, in almeno 200 sono morti tra campi di concentramento e fucilazioni. Le responsabilità di Togliatti

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Una parte poco conosciuta della storia italiana è quella dei comunisti fuggiti dall’Italia fascista per rifugiarsi in Russia. Nel Paese comunista tuttavia non trovarono il paradiso dei lavoratori ma l’inferno dei campi di concentramento, la fucilazione, la morte.

Venivano condannati perché non rispettavano l’ortodossia staliniana, più in generale per accuse senza fondamento come quella di essere delle spie del governo fascista. Su questa storia è calato un silenzio colpevole perché tra testimonianze sparse delle persone coinvolte e informazioni disperse negli archivi sovietici, è una faccenda che imbarazza i comunisti.

Per fare luce su questa tragedia è utile leggere “Comunisti italiani in Unione Sovietica. Proscritti da Mussolini soppressi da Stalin” (Ugo Mursia Editore) scritto da Romolo Caccavale, partigiano comunista, giornalista dell’Unità, iscritto al PCI dal 1945.

Duecento vittime, forse più

Emigrarono in Russia studenti, operai antifascisti, diversi anarchici e socialisti, ma si trattava soprattutto di iscritti al Partito Comunista d’Italia perseguitati dal fascismo. È difficile stimare quanti siano stati gli emigrati italiani. Lo stesso PCI non ha mai fornito ufficialmente un numero.

Dalle testimonianze si calcola che gli italiani stabiliti nell’URSS di Stalin erano diverse centinaia, non più di seicento, anche se il comunista anti-stalinista Dante Corneli, uno dei più noti italiani sopravvissuti ai gulag, arriva a stimare un numero che oscilla tra i quattromila e i cinquemila italiani residenti in Russia negli anni Trenta.

Sempre da fonti interne, è possibile stimare il numero delle vittime. Umberto Terracini, fondatore del Partito Comunista d’Italia (1921), presidente dell’Assemblea costituente e figura di spicco del PCI, in un libro intervista dichiarò:

Secondo me Togliatti era stato durante quegli anni quasi plagiato da Stalin e dallo stalinismo, da quel sistema formidabile di potere che era riuscito a subordinare a sé un intero mondo, dall’Europa all’Asia […] Tutti coloro che vivevano a Mosca […] erano presi da quel sistema, soffocati da quell’atmosfera, obbligati ad accettare e inchinarsi. Se non lo facevano, sparivano. Come sono spariti quei circa 200 comunisti italiani rifugiati nell’Unione Sovietica, deportati nei campi di annientamento dell’Asia centrale. E per salvarli niente fu tentato, diciamolo pure, neanche da Togliatti. Certo, se avesse tentato si sarebbe esposto lui stesso a chissà quali terribili sanzioni.

Caccavale scrive che, come tutti i detenuti politici, prima di essere smistati nelle prigioni, venivano portati alla Lubjanka, la sede centrale della polizia politica per essere torturati con lo scopo di estorcere delle confessioni – spesso senza fondamento – in modo da condannare direttamente gli interrogati o qualche loro conoscente, in molti casi un connazionale.

La maggioranza degli emigrati italiani arrestati finirono nei campi siberiani di lavoro forzato, definiti pudicamente “campi di lavoro correttivo”. La proibizione di vivere in grandi città fu spesso imposta negli anni Trenta ai familiari degli emigrati fucilati o in detenzione.

In alcuni casi lo Stato forniva dei falsi certificati di morte ai parenti degli uomini rinchiusi nei gulag.

Salvare il partito a discapito della vita dei militanti

Antonio Roasio, senatore comunista nelle prime due legislature, parlando dei deportati italiani confessò:

è merito di Togliatti aver salvato il partito, il suo nucleo essenziale. Altri partiti, come quello tedesco o polacco, spaccati al loro interno, diedero all’NKVD [polizia politica, ndr] la possibilità di operare arresti anche al vertice, autodistruggendosi. Noi, no. Noi ce l’abbiamo fatta (…). La nostra colpa è di non essere intervenuti dopo, nel 1945. Molti di loro erano ancora vivi nei campi di concentramento. Se Togliatti fosse allora intervenuto, con tutto il suo prestigio, forse li avremo ancora salvati.

Non solo nella stragrande maggioranza dei casi i vertici del PCI non fecero nulla per salvare la vita dei compagni-compatrioti, ma in alcuni casi, come quello di Gino De Marchi, giovane della FGCI arrestato a Mosca nel 1921 e detenuto in un campo di concentramento per 2-3 anni, fu incarcerato proprio per un’iniziativa del gruppo dirigente del PCI.

La colpevole passività di Togliatti nei confronti dello stalinismo è testimoniata anche dall’atteggiamento di altre figure interne al Comintern; il bulgaro Gregori Dimitrov si mobilitò per salvare decine di dirigenti, mentre Wilhelm Pieck, segretario in esilio del Partito Comunista di Germania, arrivò perfino a criticare l’operato dell’NKVD.

Le tragedie

Caccavale ha raccolto numerose storie. Non tutte finiscono con la fucilazione, di alcuni emigrati in Russia si sono perse completamente le tracce. Altri ebbero un destino diverso, ma non meno drammatico. Il sopracitato Dante Corneli con l’accusa di essere un oppositore trotzkista trascorse ben 21 anni nei campi di concentramento in Siberia.

Leonardo Damiano – inizialmente processato come “spia di Mussolini” – quando spiegò di aver lasciato l’Italia a otto anni per trasferirsi a Boston, venne accusato dalle autorità sovietiche di essere una spia di Roosevelt; condannato a otto anni di lavori forzati, una volta libero, nel 1946, tentò in tutti i modi di lasciare l’URSS, ma tornò in Italia solo nel 1965.

Il compagno Gino De Marchi venne inviato in Russia direttamente dal PCd’I nel 1921 e internato per due-tre anni come punizione per aver rivelato ai carabinieri il luogo in cui aveva nascosto delle armi da utilizzare durante le occupazioni delle fabbriche durante il biennio rosso. Una volta libero, poco si sa della sua sorte. Secondo Corneli venne arrestato e fucilato nel 1937.

Analogamente a Mosca Alfredo Bonciani fu accoltellato a morte nel 1935 da tre compagni connazionali dopo aver esternato la sua voglia di tornare in Italia perché insoddisfatto della Russia; gli assassini scontarono appena tre mesi di carcere.

Comunisti tra abnegazione e malafede

Roberto Oris Di Bartini si trasferì in Russia nel 1923, lavorò come ingegnere aereonautico a Mosca fino alla sua morte, nel 1974. Di Bartini non era uno qualunque, è stato uno dei pionieri della produzione aeronautica e uno dei massimi costruttori di aerei dell’URSS, gli aerei progettati da lui e dai suoi allievi vennero prodotti in serie durante la Seconda Guerra Mondiale.

Tuttavia, anche Di Bartini finì nel mirino di Stalin, nel 1939 venne incarcerato, ma scelse di continuare in prigione il suo lavoro di ricerca, scelta che gli salvò la vita. Venne scarcerato nel 1948, ma dovette attendere il 1955 per essere pienamente riabilitato.

Oltre all’orrore dello stalinismo che colpì gli stessi compagni, il libro di Caccavale rimarca anche la malafede dei comunisti che vissero in prima persona il dramma dei lavori forzati.

La maggioranza della trentina e più di italiani che poterono sopravvivere al terrore staliniano, una volta in libertà o decisero di restare per sempre nell’URSS, oppure se rientrarono in Italia scelsero anch’essi la strada del silenzio, e della solitudine. Vittorio Penco, unico sopravvissuto alla cui morte a Trieste sull’Unità [all’epoca giornale diretto da Walter Veltroni, ndr] dell’11 novembre 1993 sia apparso un necrologio, viene sì qualificato “perseguitato politico per le sue idee di libertà e di socialismo” [lasciando intendere che sia stato il fascismo a perseguitarlo, ndr], ma non vengono ricordati i 17 anni da lui scontati in Siberia.

Il testo di Caccavale non è solo un libro di storia, ci aiuta a comprendere il modo di ragionare dei comunisti e più in generale della sinistra. Sono capaci di passare sopra ogni contraddizione – financo sopra i morti (letteralmente) – pur di conservare il potere. La loro essenza è questa, da sempre.

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