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Il virus antisemita nella musica tedesca (indovinate da parte di chi?)

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Il 16 aprile scorso in Germania si sono svolti gli Echo, i music awards tedeschi. Nella categoria album rap ha vinto il duo Kollegah e Farid Bang per l’album realizzato da entrambi in collaborazione: Jung, brutal, gutaussehend 3 (Young, Brutal, Good-looking 3). Nulla di nuovo sotto il sole dal punto di vista musicale. Basi ripetute all’ossessione con punte melodico/ipnotiche, strutture che ricordano il primo Tupac. Inascoltabile il tedesco associato al rap. Un obbrobrio sonoro. Ma non è questo il punto. Il premio ha scatenato, giustamente, le ire della comunità ebraica e di altri esponenti del mondo musicale
tedesco (delle major e della produzione) perché alcuni testi risultano apertamente anti-semiti.

A me però analizzare le due frasi incriminate, presenti in due distinti brani, interessa relativamente. Se vogliamo, rappresentano la punta dell’iceberg, anche quella meno eclatante, di un terribile fenomeno di islamizzazione di un certo tipo di musica che, non solo in Germania, sta purtroppo prendendo sempre più piede fra i giovani. Le due frasi incriminate, che hanno scatenato la reazione, ipocrita, dell’establishment musicale sono: “I miei muscoli sono più definiti di quelli di un prigioniero di Auschwitz” e “Sto per fare un altro olocausto, stavolta con una molotov”.

Ciò che mi interessa è, invece, scavare nel fenomeno. Prendiamo il primo rapper. Kollegah. Vero nome Felix Martin Andreas Matthias Blume (Blume è il cognome). Padre canadese, madre tedesca. Nato a Friedberg, nella regione della Hesse. A quindici anni, dico quindici, il giovane Matthias entra in contatto con l’Islam, per via del padrigno algerino. E si converte. Ebbene sì. A quindici anni. Da qui inizia un percorso che per quanto mi riguarda considero pericolosissimo e a rischio radicalizzazione. Soprattutto se si tiene in considerazione il fatto che i testi dei suoi brani sprizzano odio e violenza contro i soliti obiettivi (indovinate quali?) e che nel novembre del 2016 il signor Blume se ne va nella Striscia di Gaza a girare un documentario. Titolo: KOLLEGAH IN PALÄSTINA (Eine StreetCinema Dokumentation). (Kollegah in Palestina, un Documentario della StreetCinema.) Vi lascio immaginare il contenuto. E’ visibile su YouTube. Dura un’ora e venti, comincia con l’inquadratura del muro di Ramallah (definito una prigione). Lui è ben presente, spesso in primo piano, la barba da jihadista molto curata, i suoi occhi azzurri che evocano altro, la voce da maschio alpha wannabe che denuncia il governo israeliano per la presunta occupazione di territori che, ricordiamolo, Israele ha vinto con due guerre e che ha sempre avuto tutto il desiderio di restituire, invano. Un perfetto Alì dagli Occhi Azzurri di pasoliniana memoria. Forse, chissà, era questo ciò che aveva preconizzato il poeta di Bologna nel suo misterioso ed esoterico poemetto; tanti figli dell’Occidente che si ribellano a sé stessi, alla loro cultura e diventano Alì, zombi posseduti dal virus dell’Islam.

Ma passiamo al suo partner di successi musicali, Farid Bang. E’ di origine marocchina, nato a Melilla ma trasferitosi a otto anni a Dusseldorf. La sua è una figura minore. Un partner che non ha mai avuto un disco al numero uno, come Kollegah, e che ha contribuito alla stesura dell’album premiato più come coautore, anche se poi le due frasi incriminate le ha scritte lui. La cosa che va ricordata del fenomeno rap islamico in Germania è che il movimento musicale non è soltanto una valvola di sfogo per quelle
comunità (come quella turca) che non si è mai integrata davvero (e, come ricorda questo bell’articolo di Quartz, che non ha intenzione di farlo) ma ha espresso anche personaggi micidiali che sono partiti per andare in Siria a combattere per lo Stato Islamico, come il rapper Deso Dogg, morto nel 2018 durante la battaglia per Deir er-Zor.

Gli Echo awards avevano già fatto scalpore nel 2016 quando era stato premiato un gruppo manifestamente neonazista. I Frei-Wild. E alcuni oggi sostengono che è necessario cambiare il regolamento di premiazione, fondato esclusivamente sul numero di dischi venduti e non sulla qualità del prodotto, giudicato magari da una giuria di qualità. Sia come sia, la cosa che risalta di più è che il fenomeno della ‘protesta’, familiare a vari generi musicali (di solito rap e heavy metal), non si associa più soltanto a una vaga crescita dei movimenti di estrema destra, ma alla concreta insorgenza della diffusione dell’Islam politico fra i giovani immigrati, anche o soprattutto quelli naturalizzati (i ‘fortunati’ beneficiari dello Ius Soli tedesco). Certo, a volte siamo costretti ad ascoltare anche star internazionali come Jay-Z che versificano impunemente contro gli ebrei. “You wanna know what’s more important than throwin’ away money in the strip club? / Credit / Ever wonder why Jewish people own all the property in America? / This is how they did it.” (Volete sapere cosa rende davvero ricchi invece che buttare soldi per aprire uno strip-club? Il credito. Vi siete mai chiesti perché gli ebrei posseggono tutto in America? Quella è la risposta”). I versi si trovano su “The Story of OJ”, pezzo inserito nell’ultimo acclamatissimo album “4.44”. E tuttavia, per tornare alle star meno acclamate ma non per questo meno pericolose, ciò che fa più impressione è l’impunità e l’ignoranza politica delle nuove generazioni d’immigrati (e autoctoni convertiti, i più invasati), convinte di aver subito non si sa quali torti dalla società che li ospita benevolmente (e che garantisce loro anche un sussidio di disoccupazione) e, inviperite, si sono rivolte all’Islam politico per trovare un’identità, un look, un modo di essere, un senso; non importa se votato al male, alla violenza e alla sopraffazione. Anzi, l’Islam politico, come fu il nazismo, affascina proprio perché in sé ha quei germi del male che sanno catturare l’immaginario desertificato da anni e anni di ignoranza, sottocultura e, last but not least, paura del diverso. Cioè, noi volevamo insegnare loro che il diverso è ricchezza e opportunità di crescita e conoscenza. Loro ce l’hanno risputato in faccia. In pratica, abbiamo alimentato un mostro che, come i palestinesi di Hamas, sta scavando un tunnel di veleno nel nostro, un tempo, amorevole ventre.

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