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Caro Vasco, ora lo spieghi tu a mia madre…

Perdoni il lettore se, una tantum, il cronista parla di sé: si permette solo perché a volte la fonte coincide con l’esperienza, e l’esperienza ha a che fare con una consapevolezza: l’impatto mediatico s’è fatto devastante, cosa che evidentemente a qualcuno sfugge; o forse no, non gli sfugge affatto ed è esattamente quello che cerca. Ho una madre sulla soglia degli 88: non esce di casa da anni, reduce da un ictus che le ha soffiato via la lucidità che restava: demenza totale e la sfibrante difficoltà di occuparmene a tempo pieno – con l’aiuto, generoso, decisivo, di una cara amica.

Lite con Vasco

Questa madre di stirpe contadina, che per pochi anni lavorò nella metropoli prima di sposarsi e rientrare nei ranghi (allora si usava così), non sa cosa siano i social, non ha mai acceso un computer in vita sua, il mondo le arriva, confuso e vociante, dallo schermo di una televisione sempre accesa. Chissà come, ha captato strascichi della faccenda di Vasco Rossi, uno che trapassa anche i buchi di una memoria diroccata: “Ma come? Ma Vasco Rossi ha detto che sei un delinquente! I delinquenti vanno in prigione. Allora vai in prigione?”. No, ma’, non vado in prigione, non ho fatto niente, stai tranquilla. “Se vai in prigione chi si occupa di me?”.

Da allora è sconvolta, l’unica speranza è che presto la tabula rasa prenda il sopravvento e tutto ricominci da zero. Così vive lei, così vivo io con lei. Fine della parentesi personale e inizio di una considerazione generale.

C’erano una volta i vip

C’era una volta un vip. Il vip era un’entità mitologica che riempiva di sè le cronache degli umani da semidio, assenza immanente, come Liz Taylor, Gianni Agnelli o o Frank Sinatra. Regnavano sui i rotocalchi e gli immaginari degli umani a forza di imprese, depravazioni, follie ma erano schermati, stavano nel loro Olimpo vizioso, nessuno li raggiungeva, al massimo qualche paparazzo molesto da scazzottare. Oggi il vip è altro anche lui, diciamo un vippo/vippa figlio dei suoi social, sta dappertutto, pontifica, si pone come fondatore di un nuovo culto: tanti vippi, tante religioni. Quante divisioni ha il vippo/vippa su Instagram o Twitter? Comunque un dèmi-dio, più stregone che santo, tipo le coppie influencer che impostano un figlio come un piano quinquennale. Ora, questi personaggi usano molto lamentarsi della celebrità, vale a dire di quelli che li odiano, li attaccano in rete, non li lasciano vivere, salvo glissare sul recto della medaglia e cioè le schiere di seguaci mandati allo sbaraglio per le loro crociate, le loro guerresante, indette invariabilmente per motivi mercantili: bisogna coltivare l’immagine, alimentare il vecchio mito chi del ribellismo, chi dell’impegno militante, chi della seduttività senile; tutto è lecito, anche giocare sporco.

Fan(atici) social

È una sorta di mutazione antropologica: fino a qualche tempo fa il vip, aggredito da critiche irriverenti, poteva limitarsi a sbandierarle, giocando di sponda, facendo leva sul vittimismo empatico: avete visto, sono famoso ma resto umano, anzi resto umile. Poi, con la scoperta della terra ignota dei social, questi vippi e vippe sempre più smaliziati hanno realizzato che si poteva dare di più: ci voleva una autentica chiamata a raccolta, come quelle di Gregorio VII o Urbano II che intorno all’anno Mille chiamavano alla difesa della Cristianità: e partivano i Cavalieri. Oggi partono i fanatici senza nome e senza faccia e chi più ne ha più ne mandi allo sbaraglio. Una dimostrazione di potenza indiscussa, di autorevolezza in grado di schiacciare sul nascere qualsiasi eretico, per dire chiunque non dica che il vippo/vippa di turno cammina sulle acque, come quel Tale, che non scriveva sul giornale ma guariva gli storpi e moltiplicava i pani e i pesci: robetta al confronto del miracolo planetario di quattro canzoni, o articoli, o selfie.

E lo è, gioco sporco, quello di tirarsela da vittime (viptime, le chiama in un suo libro Massimo Coco, il figlio del giudice trucidato dalle Brigate Rosse) mentre si gioca a Risiko, anzi a Napoleone.    Sporco anche perché, oltretutto, si può far come quel tale, quel tale che se ne lavava le mani: i violenti alcoolici da osteria digitale sono come l’Oceano di Lucio Dalla, non li puoi fermare non li puoi recintare, il vippo/vippa lo sa e ci marcia: come fai a colpevolizzare una marea di due o trecentomila esaltati, come fai a ricondurre l’origine della responsabilità a chi li sguinzaglia con un apparentemente innocente invito sui social? E tutto si dilata, i giornali riprendono, i telegiornali raccolgono, l’impatto mediatico diventa bestiale.

Guerre vippe

Qui sta il busillis di un comportamento che intende difendersi dal bullo qualunque, ma diventa iperbullista a sua volta. Il vippo/vippa non si sporca le mani e può sempre risponderti: che c’entro io? Che colpa ne ho se sono famoso? Ma non funziona così e l’oracolo twittatore, selfatore, dispensatore di saggezza tascabile lo sa perfettamente: l’intendenza seguirà. Difatti le intendenze finiscono regolarmente a massacrarsi fra loro, secondo il deprimente paradosso dei volonterosi combattenti contro l’odio che finiscono per scatenare tempeste d’odio in rete. C’è sempre uno squilibrato, un incauto che per primo attacca il vippo/vippa e che si vota a sicuro macello, con il suo esile manipolo di followers che fanno la stessa fine, caduti alle Termopili social travolti dalle legioni della “viptima”. Mentre gli scontri tra vippi e vippe di pari rango non sono mai sulla base delle ragioni, quasi sempre assai presunte, ma della carne da cannone che ciascuno ha da schierare sul suo Risiko virtuale: io ce l’ho più lungo di te, l’esercito virtuale.

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