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A dire chi abbia vinto si fa presto. Il trionfatore di questa tornata elettorale europea è Matteo Salvini, che mette in fila numeri eccezionali: 34,3% e – soprattutto – un incremento di 3 milioni e mezzo in termini di voti assoluti (dai 5 milioni e 600mila voti ottenuti il 4 marzo scorso ai 9 milioni e 100mila di ieri).
A caldo, commentando il suo successo, il leader leghista ha fatto una cosa nuova rispetto alle vecchie abitudini della politica italiana: non la richiesta di un rimpasto, ma la sollecitazione di un’agenda politica. Flat tax, autonomia, decreto sicurezza, Tav. Il punto – però – è capire se vorrà imporre ai Cinquestelle una scadenza temporale per una risposta definitiva, per evitare che i “sì” o i “ni” che riceverà possano tramutarsi in una strategia dilatoria da parte dei grillini per calciare avanti il pallone.
Quanto agli sconfitti, ci sono almeno quattro realtà da illuminare. E’ evidente che il primo a perdere (anzi, a straperdere) sia stato Luigi Di Maio. Una Caporetto, sotto il 17%, con 6 milioni di voti svaniti in un solo anno. Roba da suicidio politico. Seguire l’agenda giustizialista, lanciarsi all’assalto contro l’alleato di governo, polemizzare su tutto, ha prodotto un harakiri da case-history.
Ma, con Di Maio, perdono anche altri. Perde lo schema “tutti contro uno”, applicato selvaggiamente per vent’anni contro Berlusconi, e ora replicato maldestramente contro Salvini. Il Cav e il leader leghista sono molto diversi, ma hanno in comune dei nemici che sembrano non imparare mai la lezione. Ancora non hanno capito che, se costruisci un’Armata Brancaleone contro qualcuno, consenti a quel qualcuno (oggi a Salvini, appunto) di giocare la partita nel modo più efficace, conquistando la simpatia (umana, non solo politica) degli elettori.
Perdono i soliti intellettuali, gli “esperti”, quelli più abituati a dare le pagelle agli elettori che non ad ascoltarli. In pochi anni, dal 2016 ad oggi, hanno inanellato una sequenza storica di autogol: da Brexit all’elezione di Trump, passando per Bolsonaro in Brasile e per l’affermazione sovranista in Europa. Eppure cadono ogni volta nella solita coazione a ripetere: demonizzare i vincitori e trattare gli elettori da analfabeti. Certificando la loro perdita di contatto rispetto ai cittadini, un’incapacità di “leggere” dentro la società.
Perde infine il sistema degli exit poll. Ormai è chiaro: oltre alla fisiologica tendenza di una quota degli elettori a dire una bugia, a non rivelare il proprio voto con sincerità, gioca un condizionamento psicologico. Molti elettori, chiamati a ripetere il voto, tendono a esprimere l’opzione che paia loro più “socialmente accettabile”. E questo porta invariabilmente, negli exit poll, alla sopravvalutazione del voto mainstream, e alla sottostima del voto conservatore, o di quello populista-sovranista, oggetto di demonizzazione mediatica durante tutta la campagna elettorale.
Sono tessere di un mosaico a cui tutti – in particolare gli sconfitti – dovrebbero dedicare qualche ora di riflessione profonda, non autoassolutoria, non propagandistica. Una volta si chiamava “analisi del voto”. Per evitare di ripetere gli stessi errori la volta prossima.
Daniele Capezzone, 27 maggio 2019