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Draghi umilia il cinese Conte

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Ad ogni azione corrisponde una reazione. La terza legge della dinamica vale nel campo della fisica, ma anche in quello politico. E così lo “sgarbo” di Conte a Mario Draghi, l’aver organizzato un incontro con l’ambasciatore cinese a Roma proprio mentre il premier si apprestava a vedere i leader del G7 in chiave anti “autocrazie”, ha provocato lo “schiaffo” di rimando dell’ex banchiere. Che ieri a margine del summit tra i grandi ha tracciato un nuovo solco nei rapporti tra Roma e Pechino. Riscrivendo, o quasi, quanto fatto dal sedicente avvocato del popolo durante i governi gialloverde e giallorosso.

L’affondo di Conte

Il fuoco delle polemiche era divampato nel pomeriggio di venerdì, quando era trapelata la notizia di un imminente incontro tra Beppe Grillo e l’ambasciatore di Pechino, Li Junhua. Niente di strano, in realtà. Non è la prima volta. E in fondo Grillo non ha mai nascosto le sue simpatie per Pechino: basti pensare al post di pochi giorni fa pubblicato sul blog del comico in cui si bollavano come “sensazionalistiche” le accuse “mosse nel corso dell’ultimo anno dagli Usa e dai loro principati alleati sul presunto genocidio ugiuro in atto nello Xinjiang”. Discorso diverso per Giuseppi: benché il suo governo sia stato prodigo di regali al Dragone (vedi mascherine inviate in Cina e passerelle per i “benefattori” spediti da Pechino), per l’ex premier sarebbe stato l’esordio da leader in pectore del neo-Movimento. L’incontro insomma non poteva certo passare inosservato e così è stato. Anche perché strideva tragicamente con quanto accadeva in Inghilterra: in quelle stesse ore, Draghi in Cornovaglia tracciava la direzione “atlantista” ed “europeista” dell’Italia schierata al fianco delle “democrazie” contro ogni “autocrazia”. Compresa quella cinese. E con quale credibilità un presidente del consiglio partecipa ad un G7 in chiave anti-Pechino mentre il presunto leader del primo partito di governo va a scambiarsi pasticcini con l’ambasciatore cinese?

La replica di Draghi

Lo sgarbo ha provocato polemiche infinite. Accuse dal centrodestra, silenzio imbarazzato tra i parlamentari grillini, irritazione malcelata nel Pd. Alla fine Conte è stato costretto ad addurre poco credibili “impegni concomitanti” per innestare la retromarcia. Al cospetto dell’ambasciatore cinese non c’è andato, ma il messaggio politico è arrivato a destinazione: perché le tempistiche dell’appuntamento sembravano studiate a tavolino, anche dalla controparte cinese, per mettere in ombra la missione di Draghi al G7. Come se l’ex premier avesse provato a dire dire: “Occhio Draghi, che al governo ci siamo anche noi”.

E visto che ad ogni azione corrisponde una reazione, ieri il banchiere ha risposto colpo su colpo alle provocazioni contiane. Non solo ha sottolineato la lunghissima lista di “temi di risentimento” verso le “autocrazie” che “non rispettano i diritti umani” e “usano il lavoro forzato”. Non solo ha riscritto la ricetta da applicare a Pechino nei rapporti economici e politici (“cooperazione, competizione, franchezza”). Ma ha di fatto dato il via al pensionamento del discusso memorandum sulla Via della Seta firmato nel 2019 dall’allora governo gialloverde guidato da Conte. Certo Draghi assicura che Joe Biden non ha “mai menzionato” il documento in questi giorni, ma quel “lo esamineremo con attenzione” suona già come una condanna a morte: forse non nell’immediato, ma il premier si prima o poi rivedrà il memorandum. Checché ne dica l’avvocato del popolo.

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