Economia

Antropocene. Quale futuro per il “Pallido punto blu”

L’unica nostra casa

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Il termine Antropocene (anthropos, uomo e kainos, recente) sembra sia stato definitivamente accolto anche fuori dagli ambienti accademici e geografici, per nominare convenzionalmente la nostra epoca come nuova era geologica successiva all’Olocene. La sua validazione scientifica risale al 2019 quando l’Anthropocene Working Group (AWG) ha dimostrato la misurabilità dell’impatto dell’uomo sulla Terra.

In realtà il termine e la sua connotazione sembrano una modernizzazione della teoria “antropozoica” avanzata dal padre della geologia italiana, l’abate Antonio Stoppani.  Nel 1873 scriveva sull’uomo: “forza tellurica con potenza e universalità comparabile con le grandi forze del pianeta”.

Antonio Stoppani merita a questo punto una digressione per chi come me ama la geografia. Autore della celebre opera  Il Bel Paese, la cui lettura ancora oggi ci accompagna nelle bellezze di un Paese straordinario e, nonostante le tante problematiche, quelle descrizioni  continuano ad offrire il fascino intramontabile di uno dei luoghi più belli di questo pianeta. Alla sua figura è anche legata una golosa curiosità. Il suo ritratto e il titolo della sua celebre opera (più che le citazioni dantesche o petrarchesche) hanno contribuito a rendere riconoscibilissima una nota confezione di formaggini nostrani, almeno per circa un secolo, e a imprimersi nell’immaginario infantile di molti di noi.

 

L’era dell’uomo

Antropocene, quindi, l’era dell’uomo, il quale a partire dalla rivoluzione industriale, ma soprattutto dagli ultimi decenni, ha causato moltissime modifiche sulla Terra. Cambiamenti climatici, riscaldamento degli oceani, erosione del suolo, microplastiche e particelle di metalli diffuse negli oceani, nei sottosuoli e financo nell’atmosfera. Quasi 2500 esplosioni nucleari nel corso del XX sec. che hanno riversato una grande quantità di radionuclidi che non sarebbero mai esistiti in natura. Un impatto devastante paragonabile alle più rovinose calamità naturali.

I carotaggi eseguiti in Antartide, straordinaria sentinella ecologica che nei suoi ghiacci ha imprigionato bolle d’aria antichissime, hanno dimostrato che la nostra atmosfera ha raggiunto la più alta concentrazione di CO2 mai registrata negli ultimi 65 milioni di anni, e livelli limiti negli oceani (IPCC). Una situazione aggravata dagli inarrestabili disboscamenti, dagli allevamenti intensivi, dalla somma delle tante pratiche umane  diffuse su tutta la superficie terrestre. L’estinzione di quasi l’83% delle forme viventi.

 

Ma allora  quale futuro nell’Antropocene?

Siamo destinati a soccombere al fuoco di fila di questi dati e alle visioni distopiche e catastrofiste?  
Il pensiero antico rimane un irresistibile richiamo al monito della natura. Erano propri gli stoici a  distinguere tra le cose che dipendono da noi e quelle che non dipendono affatto e per questo  ritenevano assurdo pensare di poter cambiare fenomeni come il clima, le epidemie, il giorno della nascita e della morte.

I progressi della scienza e della tecnica moderne, ci hanno resi padroni della natura al punto da far crescere in modo esponenziale le cose che dipendono da noi e a far diminuire proporzionalmente quelle che non ne dipendono, anzi che non ne dipendono affatto (F. Bellusci).  

 

L’Antropocene è il prodotto di questo governo.

L’antropocene è l’implosione della superbia umana, prometeico-cartesiana, nei confronti della Terra. La natura irrompe nella storia e viceversa per consegnarci l’inaggirabile evidenza che non possiamo più trattare la Terra come un oggetto passivo. Noi dipendiamo alla fine dalle cose che dipendono da noi, proprio come nel caso del clima, perché abbiamo un rapporto di interdipendenza-dipendenza. Basti pensare all’aria che respiriamo, al cibo che mangiamo, all’acqua che beviamo, e questo  dato è così ovvio che ci sfugge e rischiamo di diventare vittime delle nostre vittorie.

Ma siamo ancora vivi perciò ce la possiamo fare e soprattutto seppur vicini, non siamo ancora  al cosiddetto punto di non ritorno.  

E far parte di un sistema dinamico come la Terra diventa una grande opportunità. Lo stiamo testando col virus: ogni nostro comportamento può influenzare in positivo anziché in negativo. E il nostro comportamento conta tanto più se collettivo e organizzato. Il cambiamento climatico e l’emergenza legata alla pandemia mostrano di essere due sfide globali con delle assonanze evidenti. Entrambi fenomeni complessi non lineari, con diversi parametri e variabili. Tutti motivi che rendono  possibile  modificare l’evento. Raggiungere questo obiettivo significa soprattutto saper collaborare. Il comportamento di un singolo Paese infatti non basta per affrontare queste sfide.

 

Il dialogo tra Paesi è irrinunciabile e la cooperazione necessaria.

La consapevolezza unita al comportamento virtuoso collettivo e la comunanza tra i popoli possono impattare positivamente sulle azioni dei governi mondiali e imprimere una svolta. Deporre il nostro modello produttivo basato sullo sfruttamento dovrà essere una scelta non più negoziabile.

Puntare ad es. sulla decarbonizzazione può attivare delle alternative significative che guidino l’umanità sulla strada di un necessario equilibrio con la natura. Ciò non vuol dire ritornare alla “clava” ma progredire, come l’uomo nella storia della sua evoluzione ha sempre fatto, in un contesto in cui però “la sophia, la scienza,  ricompatti la sua identità con la philìa,  l’amore, senza la quale non è possibile ottenere la felicità individuale e la sopravvivenza collettiva ancor di più nell’era dell’Antropocene”.(cfr. Lo Sguardo-Rivista di Filosofia).

 

The pale blue dote

Carl Sagan, uomo di scienze, astronomo e divulgatore scientifico, in maniera suggestiva e toccante arriva a questa consapevolezza laddove tante speculazioni e tanta politica egoistica hanno costruito mistificazioni e oltraggi. Lo fa commentando una foto (quella a corredo dell’articolo) e gli dà anche un titolo: the pale blue dote (il pallido punto blu) scattata dalla sonda Voyager I.

La sonda era partita nel 1977 per la sua missione spaziale e il 14 febbraio del 1990 nella fase finale della sua vita (dopo aver sorvolato Giove, Saturno e i suoi satelliti, attraversato i campi magnetici e tanto altro), proprio nel momento in cui stava per intraprendere la deriva cosmica nelle regioni estreme del sistema solare, ecco che Carl Sagan ebbe l’intuizione di far “voltare” l’occhio del Voyager I verso il nostro pianeta e scattare una  foto, a sei miliardi di distanza dalla Terra.

Quella foto …“il pallido punto blu”, dice Sagan, siamo noi.

Ed è un’immagine di noi che colpisce molto. E’ lì che sono racchiuse le nostre emozioni, le nostre gioie, le nostre sofferenze. “E’ quello il luogo dove ci giochiamo le nostre carte”.
Sono riflessioni che con urgenza condivido nelle classi con gli studenti, perché insieme alle nuove generazioni questo dovrà essere il nostro compito nell’era dell’Antropocene: proteggere la Terra, la nostra casa, l’unica che abbiamo, perché proteggendo questo luogo proteggiamo noi stessi.

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