Economia

Chi vincerà nella partita tra l’Italia e il risparmio accumulato?

L’Italia è di fronte a una delle sue sfide più difficili: proprio ieri sera, in occasione della partita degli ottavi di finale ai campionati europei, abbiamo visto che non esistono partite o avversari “facili”, è stata una fatica, e solo con grande pazienza, forza di volontà, coraggio e disciplina è stato possibile raggiungere l’obiettivo.

Ma la sfida più grande l’Italia la deve affrontare da altri punti di vista: la pandemia ha ulteriormente messo sotto pressione il nostro sistema economico e la tenuta di quello sociale e adesso tutte le fiches sono puntate sulla riuscita del famoso PNNR, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza; snodo fondamentale del nostro futuro.

D’altro canto anche i risparmiatori italiani sono di fronte ad un impegno difficile, il più sfidante degli ultimi anni.

Gli italiani hanno costruito la loro fortuna a partire dal secondo dopoguerra: gli aiuti americani (il Piano Marshall), la ripresa impetuosa del commercio internazionale (dovuta agli accordi di Bretton Woods) e condizioni favorevoli come la grande disponibilità di manodopera a costi molto bassi permisero al sistema economico di decollare (il famoso “miracolo economico italiano”).

Il reddito crebbe, dal 1959 al 1962, in media di oltre il 6% all’anno e nel 1960 alla lira venne attribuito l’Oscar della moneta più salda del mondo occidentale.

Questo primo periodo di grande crescita, dal 1946 alla metà degli anni settanta (che corrisponde a quelli che i francesi chiamarono les trente glorieuses), videro una grande accumulazione di ricchezza dovuta appunto all’aumento del reddito disponibile e alla elevata propensione al risparmio. 

La prima fase si interruppe bruscamente in concomitanza di alcuni eventi storici: la fine degli accordi di Bretton Woods (nell’agosto del 1971 il Presidente Usa Nixon sciolse il gold standard, cioè la convertibilità del dollaro in oro, con la conseguenza della fine della stabilità dei cambi e l’inizio della crescita dei debiti pubblici nel mondo), il primo shock petrolifero del 1973.

Dalla fine degli anni ’60 a metà degli anni ‘90 circa la ricchezza degli italiani continua a crescere ma stavolta l’aumento non è dovuto alla crescita economica ma alla imponente crescita della spesa pubblica, ad esempio il finanziamento di una spesa previdenziale senza limiti almeno fino all’inizio degli anni novanta.

Il Debito Pubblico esplode, l’Italia si trasforma in una “repubblica fondata sulle rendite” (per dirla alla Luca Ricolfi, La società signorile di massa); è la seconda fase, ed è quella che ancora oggi condiziona le scelte dei risparmiatori.

La terza fase, che inizia grossomodo a metà degli anni novanta vede ancora la ricchezza crescere ma il testimone stavolta è preso dall’apprezzamento dei valori immobiliari: la casa, vecchio amore di una generazione di italiani diventa – fino allo scoppio della Grande Crisi Finanziaria del 2007-2008 – la nuova produttrice di ricchezza (una gallina dalle uova d’oro che sembra poter durare per sempre).

In questo periodo storico la ricchezza degli italiani passa dai 100.000 euro dell’inizio degli anni cinquanta agli oltre 400.000 attuali, ma mentre nella prima fase si puntava sul lavoro (cioè crescita del reddito) e sulla accumulazione di risparmio negli ultimi anni si è puntato tutto sulla rendita, in primis dai titoli di stato.

E arriviamo a oggi, è notizia di ogni giorno l’enorme ammontare dei depositi in conto corrente: oltre 1.700 miliardi…

Gli italiani hanno paura, hanno paura del futuro e hanno paura di investire i loro risparmi sui mercati finanziari che non siano i titoli di stato; ma i titoli di stato come sappiamo, lo leggiamo in tutte le salse, rendono pochissimo.

Si sprecano le analisi e ognuno dice la sua, io penso che moltissimi decidono di non investire perché non hanno chiaro il motivo per cui dovrebbero investire.

Non viene loro spiegato che l’accumulazione improduttiva per un generico non-si-sa-mai non è vincente, che se ho l’obiettivo di mandare mio figlio di 4 anni all’Università (con i relativi costi che questa meritoria scelta comporta) non devo investire a un anno ma a 15 anni, che se devo finanziare la mia pensione futura e ho 35/40 anni devo investire almeno in maniera bilanciata perché su orizzonti di tempo così lunghi statisticamente la quota azionaria porta valore molto più dei titoli di stato, che se lascio i soldi per anni in conto corrente una ripresa dell’inflazione (che stiamo già vedendo soprattutto in America ma anche in Europa) mangia il potere di acquisto.

Il risparmiatore italiano è spiazzato e impaurito, non sa cosa fare, ma il non agire è ancora più pericoloso e – come  nel titolo del film – rischia di ritrovarsi “come un gatto in tangenziale”…

 

Massimiliano Maccari

 

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