Economia

Come USA e Cina cercano di ridimensionare le Big Tech

Anche l’Antitrust è una questione di stile

Economia

Di recente Cina e Stati Uniti sono stati accomunati dall’attacco dei rispettivi governi nei confronti delle big tech. Proprio questo attacco, però, non fa altro che evidenziare ancora una volta le differenze politiche, sociali, istituzionali e filosofiche che contraddistinguono questi grandi paesi. Gli americani, fautori del liberismo, agiscono in contrasto con i monopoli per favorire concorrenza e competitività, in Cina, invece, si vorrebbe sostituire un oligopolio (che il governo ha contribuito a creare) con l’accentramento del controllo nello Stato. Da un lato Biden rilascia un decreto per favorire la concorrenza, dall’altro Xi Jinping chiama a raccolta le imprese sotto di sé, chi avrà ragione?

Cina e Stati Uniti sono due paesi che, almeno nelle premesse, non potrebbero essere più diversi di così. Uno nasce dal socialismo emerso dalle rovine di un impero-colonia di fatto, l’altro è la patria edonistica del capitalismo; uno esalta il valore della collettività e del collettivismo, l’altro del singolo e dell’iniziativa privata.

Eppure, in questa fase storica si trovano a gareggiare sullo stesso piano, per gli stessi obiettivi, utilizzando strumenti e soggetti molto spesso simili, tanto che le big tech dell’uno sono in qualche modo l’omonimo dell’altro e anche il rapporto interno che stanno sviluppando nei loro confronti è nello stesso periodo per certi versi simili, con l’unico comun denominatore però di volerne ridurre la forza. Detto questo, gli scopi e i modi adottati per contenere l’influenza politico-economica dei giganti della rete sono del tutto diversi soprattutto perché riflettono la diversa natura socio-politica dei due contesti che li promuovono.

I rapporti tra big tech ed amministrazione americana si erano fatti tesi già durante l’amministrazione Trump, il quale aveva sviluppato un rapporto di odio e amore rispetto ai “suoi” “campioni tecnologici”, spesso criticati in patria quanto tutelati e utilizzati persino come ariete in politica estera. Per quanto riguarda l’amministrazione Biden poi, la musica non è certo cambiata, anzi. Il neo Presidente non ha mai nascosto il suo scetticismo riguardo queste imprese facendo così ingrossare le fila del partito che vorrebbe un loro ridimensionamento.

Numerose negli ultimi mesi sono state, ad esempio, le multe e le iniziative antitrust in capo a Facebook, Amazon & co., comprese delle audizioni piuttosto tese dei loro amministratori delegati chiamati a rendere conto del loro operato al Congresso. Tuttavia, al momento, tali iniziative non sono scaturite in qualcosa di veramente concreto che potesse compromettere i loro piani di sviluppo. Tuttavia, l’ingresso di Lina Khan come capo dell’Antitrust – così come era stato quello di Janet Yellen a suo tempo come Segretario al tesoro – sono significativi per quanto riguarda la potenziale condotta che l’attuale Governo americano intende condurre nei confronti di iniziative antitrust più decise, in cui si badi la questione della web o della common tax c’entrano poco.

A metà giugno, sono stati presentati ben cinque progetti di legge di natura antitrust contro le big tech. Si tratta di una strategia che fa seguito al memorandum di oltre 400 pagine presentato lo scorso autunno e che fa capo ad una strategia dei piccoli passi attraverso i quali smontare pezzo per pezzo i presunti monopoli esistenti. Si ricordi, inoltre che, sia lo Sherman Antitrust Act del 1890 sia il Clayton Act del 1914, il primo dei quali ha prodotto lo scorporo della Standard Oil in otto diverse compagnie principali più altre minori, sono tuttora in vigore. Da ultimo, lo stesso Biden sarebbe intenzionato ad adottare strumenti legislativi per favorire la concorrenza.

È evidente quindi che norme e potenzialmente le intenzioni non mancano anche se giungere poi eventualmente al passo decisivo sarà molto più difficile di quanto possa sembrare in quanto c’è da giurarci che tutti gli interessati “venderanno cara la pelle”.

Le azioni antitrust accomunano anche le imprese cinesi, ripetutamente multate da parte delle autorità locali dopo che per anni hanno vissuto in una condizione di sostanziale monopolio proprio in virtù delle condizioni favorevoli che lo Stato stesso aveva creato. A partire dall’ostracismo verso l’Ipo record di Ant Financial, il governo cinese ha più e più volte messo il bastone tra le ruote alle sue big tech: da Tencent ad Alibaba a Baidu, ByteDance eccetera. Per le big tech cinesi, come mostra il più recente caso di Didi, è finito il tempo dell’espansione incontrollata e anche la richiesta di collaborazione ai colossi del fintech come Alipay, WeChat e Ant per lo sviluppo delo Yuan digitale suona più come una cooptazione che come un appello.

In queste sfumature di stile risiede la vera differenza filosofica e pratica che c’è nel rapporto con i giganti tecnologici intrattenuto rispettivamente da Cina e Stati Uniti.

Gli americani, tradizionalmente sostenitori del liberismo più sfrenato e fautori della libertà d’impresa che sta alla base stessa della loro natura impregnata di “calvinismo imprenditoriale”, auspicano (almeno in linea teorica e sempre guidati da ragioni di convenienza) il contrasto dei monopoli allo scopo di favorire la concorrenza e il corretto funzionamento del mercato (fatto che nel 2001 ha già riguardato Microsoft). L’opinione diffusa è che aumentando la concorrenza in determinati ambiti, le imprese siano spronate sia a fare meglio nei confronti dei consumatori sia ad essere maggiormente produttive dal punto di vista dell’innovazione, recando evidenti vantaggi per tutto il sistema.

Dall’altro canto, però, le intenzioni che muovono il Governo cinese sono esattamente opposte. In effetti, quest’ultimo si oppone agli oligopoli di Alibaba, Tencent e degli altri – che come detto ha fortemente contribuito a creare, ad esempio anche col Great firewall – per creare una sorta di monopolio di fatto proprio nelle sue mani. Il problema è presto detto: il genio delle big tech cinesi è sostanzialmente uscito dalla lampada riuscendo progressivamente sia a trarre vantaggio dalle favorevoli politiche di partito sia ad affrancarsi in qualche modo dalla sua influenza.

Ora che queste grandi imprese erano diventate abbastanza forti e famose da potersi reggere da sole, avrebbero voluto accedere a piene mani ad altri mercati e produrre economie di scala proprio come le altre corporation, il tutto sperando nella silenziosa condiscendenza del Consiglio di Stato. Peccato però che quest’ultimo, nelle vesti di un novello Aladino, aveva ben capito che il genio voleva essere libero e che si sentiva frenato dalle sue continue intromissioni – come sostanzialmente denunciato alcuni mesi fa da Jack Ma.

Il comportamento descritto dei due governi rispecchia pertanto anche la natura politica di cui sono sostanzialmente espressione. Uno favorisce la proliferazione di più soggetti, anche contrapposti, che operano nello stesso settore per favorire il pluralismo di offerta e di mercato, l’altro (a quanto sembrerebbe) sfrutta questa eventualità per poter poi mantenere il più stretto controllo nei fatti ed impedire che, potenzialmente, anche il resto della società possa andare incontro ad un modello sociale in forte contrasto con quello a partito e pensiero unico vigente ormai da diversi decenni.

 

 

Maurizio Pimpinella

 

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