I discorsi del caminetto di Roosevelt

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I discorsi del caminetto di Roosvelt. In questi giorni ho visto tante interviste e particolare rilievo è stato dato al tema della comunicazione; una frase che mi ha molto colpito diceva: “oggi scriviamo i nostri ricordi di domani”
E quindi dobbiamo fare attenzione alle parole che ci raccontiamo; a tale proposito ho trovato ispirazione nella storia che vado a raccontare: i discorsi al caminetto di Franklin Delano Roosevelt, che il presidente Usa tenne nel periodo della Grande Depressione e che furono un mezzo per comunicare col popolo americano ed infondere fiducia a una nazione provata dalla crisi.

“I discorsi del caminetto”: più volte in questi giorni ho sentito richiamare il parallelo tra la situazione che stiamo vivendo e la crisi del ‘29, la Grande Depressione come venne poi chiamata. Le chiacchiere al caminetto (“fireside chats”) erano discorsi informali che il presidente americano Franklin Delano Roosevelt rivolgeva ai suoi concittadini durante quel periodo così difficile; il primo di questi fu tenuto in occasione del suo insediamento alla Casa Bianca, il 4 marzo del 1933.
Qual era lo scopo di questi discorsi? Mantenere un canale aperto con tutti cittadini e – soprattutto – infondere fiducia a una nazione depressa e preda della disperazione; le notizie che arrivavano dalla stampa infatti erano sempre di tenore negativo.

Perché scrivo di questo? Perché in queste settimane veniamo bombardati da moltissime notizie, tutte con lo stesso tono di fondo: dal bollettino quotidiano della Protezione Civile che ci espone allo stillicidio del numero dei malati e dei deceduti, alle notizie sulla crisi economica che rimbalzano su tutti i tg, alle questioni relative alla trattativa lunga e faticosa con gli altri Governi europei per avere un sostegno finanziario.

Intendiamoci, la situazione è difficile, nessuno ignora cosa sta succedendo, in particolare nell’Italia del Nord; tutti sappiamo della gravità dell’emergenza sanitaria e dei comportamenti che dobbiamo attuare per evitare che l’epidemia si diffonda ancor di più. Ma non è raccontandosi continuamente cose negative o lamentandosi in continuazione che usciremo prima da tutto ciò; e le parole che usiamo (o che ci vengono dette soprattutto) hanno un peso importante, parole come: guerra, crisi, baratro, pericolo, combattere, ecc… evocano nella nostra mente una reazione a catena: paura -> panico -> frustrazione -> fuga.
È come se nutrissimo il nostro corpo con dei veleni che gradualmente abbattono le nostre difese immunitarie, inoltre quello che inseriamo nel nostro cervello oggi condizionerà i nostri comportamenti di domani, rimarrà impresso nella nostra memoria.

E allora, cosa posso fare io nel mio piccolo?
Evitare di dipingere il futuro solo a tinte fosche e cercare di portare un messaggio di ottimismo, non sciocco, ma convinto che questo è sì un periodo impegnativo che non sappiamo quanto durerà, ma sappiamo che prima o poi finirà. E anche dal punto di vista economico, argomento del quale posso parlare e che ci riguarda da vicino, supereremo questo momento così difficile e sfidante.

Roosevelt arrivò alla Casa Bianca all’inizio del 1933: nei tre anni precedenti i disoccupati negli Usa avevano toccato il 25% della forza lavoro, le industrie avevano chiuso i battenti e le banche erano fallite a centinaia; eppure da quel momento, grazie anche ai piani varati dalla sua amministrazione (il famoso New Deal) pian piano iniziò la lenta risalita che portò negli anni successivi alla ripresa dell’economia e al recupero dei mercati finanziari. Ma questo non sarebbe successo se Roosevelt non fosse riuscito a prospettare ai suoi cittadini un futuro migliore del presente in cui vivevano.

 

Il coraggio ce l’ho, è la paura che mi frega – Totò
La paura è un’emozione nobile, addirittura positiva; è ciò che ha permesso all’uomo di arrivare fino all’epoca moderna e di affrontare e superare i pericoli nel corso della storia. Pensiamo agli uomini primitivi: se non avessero avuto paura incontrando un leone o un orso cosa sarebbe successo? Sarebbero rimasti fermi e probabilmente sarebbero stati una facile preda; invece la paura porta ad una reazione, di fuga o di attacco. Se la paura è stata quindi una scelta vincente nella storia dell’uomo, lo è meno quando ci trasferiamo nel mondo degli investimenti; la paura porta al panico e a reazioni emotive (“vendo per alleviare il dolore psicologico della perdita”).

Cosa è successo nelle due settimane a cavallo della metà di marzo?
Nel momento in cui gli investitori di tutto il mondo hanno realizzato che l’epidemia non sarebbe rimasta circoscritta alla Cina (come successo con la Sars nel 2003) ma che stava arrivando in Europa e poi nel resto del mondo (Usa in primis) la paura ha iniziato a diffondersi; il crollo del prezzo del petrolio negli stessi giorni ha dato il colpo finale. Con gli investitori più esposti che erano costretti a vendere tutti gli attivi – soprattutto quelli di qualità – per fare cassa e ripianare i margini di garanzia la paura è diventata panico.
Due gestori sentiti in questi giorni hanno dato spiegazioni chiarissime: “era come se tutti gli operatori avessero schiacciato insieme il tasto VENDERE” e “è come se dovessi vendere una casa il più velocemente possibile ma non la vendi a prezzo di mercato bensì al prezzo dell’asta fallimentare”.
Paradosso, proprio i tioli di elevata qualità (sia azionari che obbligazionari) sono stati quelli più soggetti alle vendite indiscriminate, perché più facili da realizzare. L’indice della volatilità ha toccato livelli superiori a quelli visti all’epoca del crack della Lehman Brothers con oscillazioni degli indici nell’ordine del meno 12% o del più 11%. I risparmiatori sono stati sottoposti ad uno stress emotivo senza precedenti e la mole di notizie è stata particolarmente abbondante: in queste condizioni la parte emotiva spesso prevale su quella razionale; qualcuno non ha retto lo stress e – proprio nei giorni di maggior tensione – ha ceduto e ha venduto tutto. Chiariamo subito, non sono due settimane di rimbalzo dopo un mese di discesa verticale a cambiare le cose ma anche stavolta chi ha venduto sulla scorta dell’emotività forse ha mollato troppo presto:

 

Come disse John Templeton, storico investitore e gestore del Templeton Growth Fund (che registrò rendimenti medi annui del 15% dal 1954 al 1992, battendo l’indice S&P 500 del 5% all’anno), “questa volta è diverso” sono le 4 parole più costose della lingua inglese.
Templeton ebbe il suo primo impiego a Wall Street nel 1937, nel pieno della Grande Depressione; era un bastian contrario, credeva nell’acquisto di azioni “nel momento del massimo pessimismo”.
Quando tutti pensavano che il mondo stesse per finire, John pensava che fosse il momento giusto per investire; nell’autunno del 1939, con la Depressione ancora in corso e Hitler che dava il via alla seconda guerra mondiale, John Templeton prese tutti i soldi che aveva risparmiato e comprò 100 dollari di ogni azione che valesse al massimo 1 dollaro alla borsa di New York; quel portafoglio diventò la base di una vasta fortuna personale e la dotazione iniziale della sua società di gestore del risparmio, la Templeton Mutual Funds (tratto da Soldi, di Anthony Robbins).
Negli ultimi 40 anni la perdita media infrannuale è stata del 13,2%, nonostante questo per 30 volte l’indice S&P 500 ha chiuso l’anno in positivo, con un rendimento medio del 17,7%; casi emblematici il 1998 e il 2009: durante l’anno ebbero forti perdite (-19,1% e -27,1%) eppure chiusero a +26,2% e +23,4%. Ma quanti hanno beneficiato della risalita eccezionale dopo la violenta discesa del 2008 (-38%)?
Oggi, grazie allo storno, c’è una grande occasione: con gradualità, cautela e pazienza.

 

Massimiliano Maccari

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