Economia

L’effetto della crisi sull’occupazione femminile

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I dati divulgati a settembre dall’Istat sembrano confermare la paura diffusa fin dalle prime settimane dell’emergenza Covid-19 e cioè che, con la crisi, a rimetterci, sarebbero state soprattutto le donne. Il primo bilancio, ancora del tutto parziale, degli effetti che il lockdown primaverile ha avuto sul mercato del lavoro contabilizza, infatti, tra secondo trimestre 2019 e 2020, 470 mila occupate in meno, per un calo nell’anno del 4,7%. Su 100 posti di lavoro persi (in tutto 841 mila), quelli femminili rappresentano il 55,9%; al confronto, l’occupazione maschile ha dato prova di maggior tenuta, registrando un decremento del 2,7% (371 mila occupati).

A segnare la maggiore contrazione è stata la componente di lavoro a termine, che ha registrato 327 mila lavoratrici in meno per un calo del 22,7%. Ma anche per le autonome il bilancio è fortemente negativo, con un decremento del 5,1%.

Si tratta di un dato ancora provvisorio che dovrà essere rivisto alla luce della fine del blocco dei licenziamenti e delle conseguenze che questa avrà sull’occupazione a tempo indeterminato, finora salvaguardata dalle misure adottate dal Governo. Ma l’impatto differenziato tra uomini e donne che la crisi ha avuto nei primi mesi dell’anno già suona come un campanello d’allarme sugli effetti che ne potrebbero derivare per l’occupazione femminile, soprattutto alla luce dell’emergenza sanitaria che sta riesplodendo nelle sue forme più drammatiche.

L’elevata incidenza delle donne nei settori che più sono stati interessati dalla crisi ha contributo in modo determinante a produrre un saldo così negativo. L’industria, dove il lavoro maschile è prevalente, ha per ora retto di più, mentre sono stati soprattutto i servizi, tradizionale bacino di impiego femminile, a pagare il costo più caro: è il caso del sistema ricettivo e ristorativo, dove le donne rappresentano il 50,6% dell’occupazione, e dei servizi di assistenza domestica, dove il lavoro femminile arriva all’88,1%. Entrambi hanno contribuito in maniera decisiva al negativo saldo occupazionale, determinando il 44,2% delle perdite complessive dei posti di lavoro, e ben il 51% con riferimento a quelli femminili.

Anche l’elevato coinvolgimento in modalità di lavoro flessibile, sia in termini contrattuali che temporali, ha esposto le lavoratrici a un rischio più elevato di espulsione dal mercato. Il lavoro part- time, che prima della crisi risultava la modalità di impiego del 33% delle lavoratrici e solo dell’8,8% degli uomini, ha subito una contrazione del 7,4%. Ma anche il lavoro a termine, letteralmente falcidiato dal lockdown, risultava più presente tra le donne che tra gli uomini (14,4% contro il 12,2%).

Se la contabilizzazione dei posti persi rende, nei numeri, immediatamente visibile l’impatto che l’emergenza Covid-19 già sta avendo sul lavoro delle donne, vi è un secondo e ancora più preoccupante effetto che potrebbe derivarne, ovvero la possibilità che molte riducano il proprio investimento sul lavoro, fino alla scelta radicale di abbandonarlo, anche per via delle nuove restrizioni degli ultimi giorni relative a determinate attività o delle chiusure scolastiche imposte da alcune regioni in modo più stringente rispetto al livello nazionale (si pensi alla chiusura di alcuni livelli scolastici e all’impego femminile che ne consegue in casa).

L’esperienza vissuta durante i mesi di chiusura primaverile ha visto le donne gestire un sovraccarico di lavoro, famigliare e professionale, senza precedenti. Da un lato, sono state più degli uomini impegnate nell’attività lavorativa, dovendo garantire l’erogazione di servizi essenziali, dalla scuola, alla sanità, alla pubblica amministrazione, tutti settori a forte vocazione femminile: durante quel lockdown ben il 74% delle donne ha continuato a lavorare mentre tra gli uomini la percentuale è stata più bassa (66%). Dall’altro lato, con la chiusura delle scuole, il tema della conciliazione si è imposto in modo emergenziale, sia per le tante mamme che hanno dovuto garantire la presenza nel luogo di lavoro (si pensi alle lavoratrici in ambito sanitario o della pubblica amministrazione), sia per quante hanno potuto lavorare da casa, dove però i compiti di cura e di assistenza nei confronti dei figli impegnati con la didattica a distanza hanno reso la conciliazione un’impresa a dir poco impossibile. Lo stress che ne è derivato, nell’uno e nell’altro caso, per quasi 3 milioni di mamme lavoratrici con un figlio a carico con meno di 15 anni (30% delle occupate) è stato elevatissimo, tanto che molte di loro potrebbero essersi trovate nella condizione di interrompere o rallentare la propria attività. Nell’ultimo anno la tendenza ad allontanarsi dal lavoro, rinunciando anche alla ricerca di un’occupazione, è cresciuta sensibilmente, facendo registrare tra giugno 2019 e 2020 un incremento di 707 mila donne inattive (+8,5%) (tab. 2). Il tasso di attività femminile, nello stesso arco di tempo, è diminuito di 3 punti percentuali, passando da 56,8 a 53 così annullando, in pochi mesi, i progressi fatti nell’ultimo decennio in termini di innalzamento dei livelli di partecipazione femminile al lavoro.

Il blocco delle attività e la conseguente impossibilità di ricercare un lavoro hanno contribuito a scoraggiare l’offerta di lavoro. Ma le maggiori difficoltà di conciliazione, indotte da un provvedimento straordinario come la chiusura delle scuole, hanno giocato un ruolo altrettanto importante nello spostare verso l’inattività una quota così significativa di donne.

La riduzione maggiore dei livelli di partecipazione si registra infatti nelle fasce giovanili, dove la quota di donne che ha compiti di accudimento verso i figli è più elevata. Il tasso di attività è passato infatti dal 62,1 al 54,8 tra le 25-29enni, dal 68,8 al 61,6 tra le 30-34enni e dal 71 al 66,8 tra le 35- 39enni. Tale tendenza appare particolarmente accentuata tra le donne che hanno titoli di studio più bassi, dove la propensione al lavoro risulta già di suo ridotto, e l’effetto scoraggiamento prodotto dalla crisi può aver impattato maggiormente; ma anche tra le laureate, che presentano livelli di attività di gran lunga superiori alla media, il rischio di fuga dal lavoro è alto, soprattutto tra le giovanissime.

Se lo spettro dell’abbandono è quanto mai reale, ancora di più lo è poi il rischio che le donne, soprattutto quelle occupate in posizioni medio-alte, possano essere portate ad un ridimensionamento del proprio investimento professionale.
L’esperienza dell’home working, pur funzionale all’emergenzialità del momento, ha mostrato più di qualche controindicazione, di cui organizzazioni e politica dovranno tenere conto per rimettere mano ad uno strumento organizzativa che ha in sé molteplici potenzialità. La sensazione, lavorando da casa, di dover essere “always on”, disponibile a tutte le ore e per qualsiasi richiesta, il venire meno dei confini tra lavoro professionale e di cura, le preoccupazioni di non raggiungere i risultati attesi, la scarsa flessibilità di molte organizzazioni, ma anche l’allontanamento fisico dalla dimensione lavorativa, fatta di luoghi e relazioni, rischiano nel lungo periodo di lasciare un malessere profondo nel rapporto tra donne e lavoro.

Si tratta di tendenze che attendono di essere confermate nei prossimi mesi, quando gli effetti prodotti dalla pandemia sull’occupazione saranno più certi. Ma l’orizzonte che inizia ad intravvedersi desta non poche preoccupazioni, considerate le enormi e note criticità che storicamente contraddistinguono il lavoro femminile nel nostro Paese. Negli ultimi anni, l’Italia ha fatto grandi passi in avanti: le lavoratrici sono aumentate, andando vieppiù a ricoprire posizioni centrali nell’economia del Paese. Sono cresciute imprenditrici e professioniste, motore a loro volta di nuova occupazione. È aumentata complessivamente la partecipazione delle donne al lavoro: segno di una volontà delle donne, soprattutto giovani, di contribuire in modo pieno alla vita economica e sociale, pur tra le mille difficoltà che questa incontra. Siamo però purtroppo ancora il Paese dove si registra il più alto tasso di abbandono del lavoro per esigenze di cura famigliare (non lavora per tale motivo il 13,3% delle donne italiane contro l’8,2% della media europea) e dove, non è un caso, si registrano i livelli di natalità più bassi. Insomma, un Paese dove per le donne vale la formula “meno lavoro, meno figli”. Il rischio di un repentino balzo indietro è elevato e per questo mettere oggi le donne al centro di un rinnovamento delle politiche del lavoro, in grado di supportare questa componente del mercato, rappresenta un’urgenza nazionale. Le donne sono un’energia vitale irrinunciabile, ma il loro minore potere effettivo rischia di farle subire un ennesimo arretramento di ruolo e di condizione. Come emerso proprio durante il lockdown della scorsa primavera, costituiscono una componente fondamentale in tanti settori di interesse economico e sociale a partire dalla scuola e dalla sanità, dove rappresentano rispettivamente il 75,5% e 69,8% della forza lavoro. Apportano poi all’occupazione italiana un contributo sempre più rilevante in termini di qualificazione e competenza. Le donne sono infatti andate a ricoprire ruoli e funzioni sempre più elevate della piramide professionale. Se ogni 100 occupati, 42 sono donne, tra le professioni intellettuali la percentuale è arrivata al 54%. Peraltro, negli anni, tale tendenza è andata ad accentuarsi e tra gli under 40 la presenza femminile risulta in crescita proprio nelle posizioni apicali. Anche in termini di conoscenza e competenza cresce il contributo delle donne all’innalzamento della qualità del lavoro: su 100 occupati in possesso di laurea o titolo superiore, 55 sono donne; tra i giovani con meno di 35 anni la percentuale sale al 60%.

Le donne sono un potenziale incredibile per il lavoro, che già c’è e che verrà; un potenziale ancora poco sfruttato e che rischia di disperdersi ulteriormente. Occorre pertanto oggi più che mai attivare un mix di azioni per evitare che le conseguenze della crisi occupazionale ricadano su di esse e soprattutto arginare il rischio incombente che molte di loro possano essere tentate di “chiamarsi fuori”. L’innovazione dell’organizzazione del lavoro rappresenta da questo punto di vista un obiettivo prioritario, soprattutto alla luce dell’ampio ricorso al lavoro agile fatto durante il lockdown. Per quanto molto lontana dall’essere “smart” quella vissuta da migliaia di lavoratrici è stata un’esperienza importante, destinata a lasciare il segno, in un Paese dove, pochi mesi prima dell’emergenza, solo l’1,8% delle dipendenti lavorava da casa a fronte di una media europea del 13,2% e di realtà come i Paesi Bassi (32,8%) dove lo smart working rappresentava una modalità di lavoro consolidata da tempo.

Passata la fase emergenziale, c’è assoluta urgenza di procedere nell’implementazione e miglioramento di uno strumento organizzativo, che dovrà essere in grado, caso per caso, di contemperare le esigenze di flessibilità e conciliazione che potrebbero nei prossimi mesi accrescersi, senza penalizzare l’investimento in carriera delle donne. Secondo uno studio elaborato dalla Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, sono più di due milioni (il 25,8% del totale) le dipendenti occupabili in modalità smart, il cui lavoro non necessita, con riferimento al tipo di attività svolta e al contesto, di presenza in sede.

La crisi potrebbe da questo punto di vista rappresentare un’opportunità eccezionale, portando le aziende a rivedere le proprie forme organizzative, in modo da rendere un contesto più flessibile ed empatico per le esigenze delle donne. Le scelte che le organizzazioni pubbliche o private prenderanno in questo momento, soprattutto a causa della ripresa prepotente della pandemia, saranno decisive per i prossimi anni.

Ovviamente resterebbe fuori un’ampia platea di lavoratrici per cui, al contrario, la sede di lavoro continua a rappresentare un vincolo nell’esercizio della propria attività professionale: un segmento ampio, a cui corrispondono livelli di qualificazione e retributivi mediamente più bassi rispetto a chi potrebbe lavorare in modalità agile. In questo caso, il policy mix dovrebbe contemperare anche un riordino e potenziamento degli interventi monetari per i figli a carico, modulati sulla condizione economica del nucleo famigliare, in modo da limitare gli effetti disincentivanti per il lavoro femminile.

Il potenziamento dell’offerta e dell’accessibilità ai servizi che favoriscono la conciliazione lavoro- famiglia, a partire dagli asili nido fino ai servizi di cura per la terza età rappresenta un obiettivo da sempre presente nelle politiche, ma in lento stato di avanzamento. Da questo punto di vista, lo sviluppo del welfare aziendale o territoriale può rappresentare una risposta utile, ma comunque integrativa di un’azione che non può prescindere dal pubblico, sia in termini di sostegno ai servizi, che soprattutto di progettazione di un’organizzazione dei tempi e degli spazi di vita che sia funzionale anche alle esigenze delle donne che lavorano. La progettazione di hub di lavoro in cui far convergere spazi di co-working assieme a servizi di cura per l’infanzia e la terza età, unitamente alla presenza di quelli essenziali, potrebbero rappresentare nuove sfide interessanti da mettere in campo a livello locale per favorire quell’innovazione sociale e del lavoro che in molti Paesi è già realtà.

Infine, occorre sostenere l’occupabilità delle donne, nelle tante dimensioni di cui questa si compone. A partire dall’orientamento e dalla formazione che vede ancora troppe giovani donne indirizzarsi verso percorsi formativi secondari e terziari a bassa spendibilità occupazionale, che rischiano di produrre i ben noti e diffusi fenomeni di sottoccupazione. Ma più di tutti, va rafforzata la consapevolezza e il riconoscimento sociale del ruolo che le donne oggi giocano, anche e soprattutto da un punto di vista professionale. La pandemia ha rivitalizzato stereotipi che sembravano in via di derubricazione, riportando da un giorno all’altro “le donne a casa”. Ciò sta producendo effetti diversi e talvolta contraddittori, a seconda dell’età, della condizione personale, della professione, delle caratteristiche organizzative. Quel che resta è la forza di un’immagine da cui generazioni di donne hanno voluto emanciparsi, ma che potrebbe costituire, nelle condizioni eccezionali che stiamo vivendo, l’avvio di un riflusso voluto o forzato verso una nuova fase di disinvestimento e disimpegno lavorativo. Incrementare la qualità del lavoro, dotare l’organizzazione aziendale di strumenti che siano in grado di valorizzare il lavoro da casa, senza che ciò diventi lavoro di serie b, sostenere la fiducia femminile nelle proprie risorse e potenzialità, rappresenta il lavoro di fino che ogni contesto organizzativo e sociale dovrebbe portare avanti, per sostenere le donne in una fase di passaggio epocale rischiosa, ma al tempo stesso ricca di nuove sfide e opportunità.

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