Economia

Un commercialista a capo del governo

Un commercialista a capo del governo

Le contrapposte fazioni politiche si stanno dando oggi battaglia su un argomento che varrà la rielezione: la tassa patrimoniale.

Volgendo lo sguardo al futuro, è pressochè evidente che le risorse delle Stato siano destinate a divenire “merce rara” per far fronte ai molteplici bisogni collettivi nati a seguito della pandemia. Necessità nuove a cui il governo cerca di rispondere con un nuovo prelievo forzoso, sebbene, parallelamente, le imposte, le tasse e gli ordinari contributi siano stati sospesi. Una contraddizione o un equivoco che si spera possa essere, nel breve termine, risolto e la sua soluzione risiede proprio nel passato più remoto.

Mentre si provvede a portar a termine la presentazione delle domande dei contributi a fondo perduto, suscita un enorme interesse la pantomima “tassa patrimoniale” da operarsi mediante prelievo forzoso.

Ennesimo emblema di questo “strano e contraddittorio” Paese, la tassa patrimoniale rappresenta una straordinaria operazione di prelievo esattoriale che colpisce il patrimonio. Questa può avere natura soggettiva, qualora colpisca la ricchezza complessivamente detenuta dal singolo contribuente (sia esso persona fisica che giuridica), ovvero reale, qualora invece investisse solo una determinata componente del patrimonio (es. gli immobili, o i risparmi in conto corrente).

L’aliquota applicata potrà essere fissa o variabile, aumentando, all’aumentare della ricchezza posseduta.

Un incubo di questi tempi, in cui i conti di aziende sono in rosso o in profondo rosso mentre i risparmi degli italiani aumentano talmente a dismisura, come dichiarato dalla BCE, da mettere in crisi i consumi.  Non sorprende così l’effetto “antipatico” che scuote tale iniziativa e sfuggire ad essa è quasi improbabile, sebbene potrebbero esserci alternative, lecite, per ridurre l’aggravio fiscale.

In Italia, molte sono le “patrimoniali” in essere: l’imposta di bollo sui conti correnti, la tassa di successione e donazione, l’imposta sui depositi titoli e non da ultima l’IMU, per dirne alcune.

Il governo varerà un aumento delle stesse o istituirà una nuova patrimoniale sulla liquidità depositata nei conti correnti?

L’applicazione della tassa sui risparmi soddisferebbe, in un tempo pressoché immediato, la sete erariale dello Stato. Il contribuente potrebbe quindi decidere di investire i risparmi in titoli (statali o privati), obbligazioni, strumenti finanziari, Etf e Fondi Comuni, o anche in beni materiali come oro, diamanti o oggetti da collezione.  D’altro canto, il Legislatore prevede già una specifica tassazione sul capital gain pari al 26% nel caso di interessi e di rendimenti derivanti dal possesso di azioni, quote, partecipazioni, warrant, Etf e Fondi comuni di investimento, con l’eccezione di quelli statali. Infatti i rendimenti di BOT, BTP, CCT e CTZ scontano l’aliquota ridotta al 12,5%.

Più complicato potrebbe essere l’investimento in beni materiali, alle prese con il falso, la reperibilità degli oggetti, la professionalità degli operatori e le quantità da acquistare. Si potrebbe optare di prelevare il contante (entro determinati limiti di antiriciclaggio) e depositarlo in una cassetta di sicurezza (il cui contenuto è conoscibile da parte di Agenzia delle Entrate o Guardia di Finanza) o sotto il materasso qualora il 2020 fosse il nuovo 1929.

Si potrebbe pensare allora di firmare assegni circolari intestandoli a se stessi o a cari più prossimi e di cui si gode di ottima fiducia, ma le somme destinate e non ancora incassate formerebbero comunque “patrimonio”. Alcuni potrebbero essere allettati dal cambiamento e decidere di espatriare, ed in tal caso è necessario valutare se il gioco vale la candela e se la spesa vale l’impresa.

Oppure si potrebbe decidere di investire in strumenti previdenziali, come polizze vita o assicurazioni che sembrano essere le alternative più percorribili. La certezza che tali strumenti non siano inglobati nel computo della tassa patrimoniale però non è ancora detto.

Se infine, il prelievo forzoso dovesse operarsi solo a partire da un determinato quantum di risparmio depositato, allora si potrebbero pianificare alcune spese tanto da abbattere e ridurre i risparmi sotto al minimo richiesto per effettuare il prelievo stesso. In tal caso, è necessario attendere l’emanazione della legge che potrebbe non lasciare il tempo di sostenere tali costi.

I modi quindi ci sono, ma quanto è giusto cercare di sfuggire da una patrimoniale?

Ci insegnano che concorrere alle spese pubbliche è un dovere civico e se questo non bastasse, ci offrono una sintetica “guida pratica” sulla res pubblica, impreziosendola di diritti fondamentali come l’eguaglianza e la solidarietà propri della Costituzione, di cui tutti, o almeno tutti, ne siamo reverenzialmente intimoriti. D’altro canto, perché però tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche (cit. Costituzione, art. 43), se poi la casta politica non riesce nemmeno a rinunciare ai vitalizi?

Ci insegnano anche che lo Stato italiano è vicino alle esigenze dei cittadini, alleggerendo il carico fiscale e prorogando le scadenze per affrontare l’emergenza COVID-19. Ma qualsiasi cosa ha un prezzo, ed il prezzo di questo “supporto” (più morale che materiale) è un nuovo prelievo forzoso. Insomma, si offre la possibilità di ritardare i pagamenti ma si “fa cassa” con altre entrate: il risultato è una doppia imposizione fiscale.

È proprio strano questo Bel Paese. L’attenzione mediatica sulla tassa patrimoniale è talmente rilevante che dovremmo utilizzarla per porre l’attenzione su un grandissimo e gravoso problema, genesi dell’arretratezza della nostra economia.

All’Audizione del Direttore dell’Agenzia delle entrate e Presidente dell’Agenzia delle entrate- Riscossione dello scorso 22 aprile 2020, l’Avv. Ernesto Maria Ruffini ha sollevato una questione rimasta sopita sin troppo a lungo, e a cui oggi deve darsi risposta, per non far pagare, agli onesti, il prezzo della disonestà altrui. Alla data del 31 dicembre 2019, il valore dei crediti da riscuotere affidato all’Agente della riscossione dal 1° gennaio 2000, ammonta a circa 954,7 miliardi di euro, di cui 382 miliardi reputati inesigibili.

Mancate risorse che non solo hanno determinato, negli anni, tagli a settori come sanità e istruzione, ma che hanno irrimediabilmente alterato il mercato, le leggi della concorrenza e dell’imprenditorialità. Il mancato pagamento delle imposte o delle tasse in genere, fa sì che le aziende si scontrino su piani talmente diversi (uno legale e l’altro illegale), in cui il risultato è una perdita quadrupla. L’azienda responsabile potrebbe fuoriuscire dal mercato perché non competitiva con i prezzi ribassati dell’azienda evasore. Questa non paga, e se accertata potrebbe chiudere, portando con sé il fallimento di altre imprese. Alla fine lo Stato non incassa. Siamo davvero pronti a sopportare anche questo? O magari i sacrifici di una riforma del diritto commerciale, tributario e privato potrebbero evitare una nuova pandemia?  Magari questa tanto attesta riforma, dovrebbe iniziare proprio da chi ci rappresenta, che poi l’arte di imitare è poca cosa, semplice e gratuita.

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