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Galli della Loggia, che “ovvove” le periferie

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“Caposervizio… Ri-riscrivo?”. “Ri-riscrivi, contessa, ma… un po’ più centrale!”. E la contessa Serbelloni Mazzanti Della Loggia Vien Dal Mare ri-riscrisse l’ennesima articolessa. Su cosa? Oh bella: sulle periferie, in francese banlieuses. Se non ci fossero, le periferie, bisognerebbe inventarle: riempiono tutto, motivano tutto, a tutto danno un senso, quando una testata ha un buco improvviso la soluzione è sempre quella e sempre bella: famo un pezzo sulle periferie. Le periferie sono come i crauti di Monica Vitti, son quella cosa, che si schiaffano dentro ai giornali, e poi si leggono a spazi, quattro facce, mezzo metro, a piazèr. Et le voilà, l’Ernesto squaderna un tema freschissimo, leggiadro, frizzante: le periferie nel tempo dell’emergenza da coronavirus, che poi si può anche leggere alla rovescia, l’emergenza da coronavirus nel tempo delle periferie.

Cosa scrive Serbelloni Mazzanti Della Loggia Vien Dal Mare? Sul Corriere cinese, un pezzo di solidarismo di sinistra, magari non comunista, possibilmente socialriformista, lombardiano, o, se preferite, con antiche brezze di Mondoperaio, comunque e sempre accorato e vigile sulla situazione, che è seria, signora mia, ma grave: “Ma con ancora maggiore urgenza la pandemia ripropone il tema delle periferie. Infatti, da dove pensiamo che provengano in larga maggioranza le turbe di giovani che dappertutto stanno agitando le notti italiane di questa estate?” scrive l’Ernesto in una virtuosa commistione tra alto e basso, tra sociologia paramarxista adornata di lotta di classe e sociologia calcistica alla Edoardo Bennato & Gianna Nannini. Già, da dove pensiamo che provengano le turbe? Ma è chiaro: “Da dove, se non dalle invivibili periferie, dagli sperduti quartieri dormitori, dalle strade male illuminate che finiscono nel nulla?”. Il climax è travolgente, drammatico; e lo neghiamo forse noi? No, dico: lo neghiamo forse noi?

Non lo neghiamo. Tanto più che “Ormai è diventato un rito. Al calar d’ogni sera, specie nel fine settimana, quei giovani si rovesciano nelle piazze, nei centri storici delle città, e sembrano farlo come posseduti da un desiderio di rivalsa che oggi si manifesta nella volontà d’infrangere tutti gli obblighi e le precauzioni sanitarie, di farsi beffa in tal modo di ogni regola di civile convivenza”. Roba lugubre, quasi transilvanica, che uno subito rimpiange il sor Brega nei panni di Augusto il droghiere che da solo li rimette a posto: “È venuto, er più grosso, tutto spavaldo… M’ha dato ‘n cazzotto ‘m’bocca… Me lo so’ guardato… Ptù! Manco er sangue m’hai fatto uscì. J’ho detto in guardia a cornuto! J’ho dato ‘n destro mbocca… M’è cascato per tera come Gesù Cristo. J’ho rotto er setto nasale, j’ho frantumato le mucose e je dicevo, arzate, arzate a cornuto!!! Nun se arzato”.

Ma Galli della Loggia, jamais: uno come lui, un intellettuale non può certo abbandonarsi a queste soluzioni facili, rozze, volgari, da olive greche; difatti non ne propone proprio, si limita, da gran signore, a registrare la porca situazione: “Li muove, si direbbe, quasi il torbido proposito di seminare il contagio, di infettare la società “per bene” insieme ai posti che essa abita. Di distruggere quanto non possono avere”. Si direbbe. Al di là delle virgolette un po’ paraguriche, del genere sì, lo so che la società per bene non esiste però noi pensatori ne facciamo parte, il tutto si può condensare, all’osso e alla brutta, come segue: ‘sti stronzi di giovinastri nelle periferie si rompono i coglioni, s’incazzano e siccome sono poveri, brutti e probabilmente un po’ infetti o almeno positivi asintomatici, sciamano a sporcare, a “infettare” (ipse dixit) i privilegiati. Che ovvove. Dove andvemo a finive, signova mia.

Ma possiamo dire la verità, almeno la nostra trascurabile verità di liberali figli di nessuno? Proviamoci e, se non si offende il professore, osserveremo che questo condensato di luoghi comuni, degradati o nobili che siano, riesce un po’ stantio, che Galli ha scritto di meglio, che quando una cosa è tirata via si sente, si coglie, si annusa. E su. E sempre con ‘sta sinistra paternalista che finge di condannare mentre finge di giustificare mentre in realtà un pochetto disprezza sul serio la marmaglia sanculotta, agitata, irresponsabile, animata da sacro furore iconoclasta che intorbida i posti giusti, le cose per bene. Ora, che il teppismo alberghi nelle cinture suburbane, negl’inferi di ogni hinterland, non lo scopre Galli della Loggia e non lo scopriamo noi, bastavano già Dickens o sir Conan Doyle: dopo di loro, ondate su ondate di sociologia liofilizzata in saldo; che poi questi siano gli unici a insozzare, a “infettare”, a imbastardire i centri nobili, questo è tutto da discutere, potrà parere agli intellettuali, ai docenti ztl, ai bon vivant blindati nelle loro bolle di prima classe, ma la realtà non è proprio così, non la puoi tagliare con la scure da boscaiolo.

Perché, intanto, anche gli stessi centri storici nascondono sacche di degrado e di inciviltà, incistate, resistenti (stavamo per dire: resilienti, ma fa schifo); di più, perché la scoscienza degli obblighi civili è una delle cose più democratiche di questo squinternato mondo: che poi si declini in sfumature diverse a seconda della classe, è altro discorso; ma non ci si venga a chiudere la questione semplicemente, banalmente osservando che tutta la merda periferica si spalma nei centri storici al fine settimana. I ratti per Raggi che brulicano nel centro storico, per dirne una, non ce li portano i balordi di periferia. Infine sarebbero da chiarire questi benedetti obblighi civili: dove stanno? Nel rispetto che si deve al bello e al degno delle città?

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