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La lezione inutile del Covid-19

La riproposizione di una nuova chiusura totale sarebbe la certificazione del fallimento del primo lockdown

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Siamo arrivati alla fine di questa storia dal sapore dispotico, distopico e totalitario. Il 3 giugno scatta il “liberi tutti” e gli italiani potranno ritornare a muoversi su tutto il territorio nazionale. Allora, conviene farsi qualche utile domanda: se ci sarà un ritorno dell’epidemia ci sarà anche un ritorno del lockdown? E se ci fosse un ritorno al passato più prossimo sarebbe la cosa più giusta o la certificazione che tutto è stato vano?

Il governo italiano – a tutti i livelli, da Roma alle Regioni agli enti locali – non impara mai le lezioni che sono impartite dalla realtà e perfino dalle sue dure repliche. La sola ipotesi di un nuovo lockdown è inconcepibile. L’Italia, infatti, non reggerebbe la nuova chiusura totale e crollerebbe di schianto sotto il peso della pesante immobilità e della montagna dei debiti. Il rimedio della negazione della libertà per ricavarne sicurezza sarebbe improponibile una seconda volta perché si rivelerebbe da subito peggiore del male. Inoltre, la riproposizione di una nuova chiusura totale sarebbe la certificazione del fallimento del primo lockdown. Infatti, la chiusura totale sarebbe dovuta servire a fare ciò che non si è fatto: mettere su alla meno peggio una sanità territoriale con cui controllare l’epidemia. Questo è il punto centrale di tutta la vicenda del Covid-19 che ha travolto le nostre vite e le ha consegnate all’arbitrio del potere assoluto del governo.

La Corte dei conti ha avvertito le Regioni: devono da subito riorganizzare la sanità territoriale. Servono ambulatori, prevenzione, medici ed infermieri per cure domiciliari. L’ospedale, con il pronto soccorso che diventa una sorta di ambulatorio omnibus o tutto-fare, è un’arma a doppio taglio se è considerato l’unico modo di organizzare cure, assistenza, interventi, prevenzione perché da un lato fatica ad assicurare l’ordinario e dall’altro non può per sua natura controllare un fenomeno epidemiologico che va contrastato sul territorio.

In una democrazia matura, con classi dirigenti serie capaci di distinguere tra ciò che è possibile e ciò che riguarda gli dèi, la sicurezza, alla quale tante volte si è fatto riferimento con ossessione, è questa: una sanità territoriale capace di usare il metodo della “sorveglianza attiva” – tamponi, individuazione, isolamento, tracciamento – che da che mondo è mondo è stato sempre usato per fronteggiare le epidemie. Invece, il guaio serio è che si dice sicurezza ma si pensa immunità, immortalità, indistruttibilità e sulla base di questa illusione menzognera si sollecita lo scambio osceno tra libertà e sicurezza. Con il risultato che in un solo colpo si riesce a perdere sia l’una sia l’altra e, come avvenuto proprio nel caso italiano, si rimane in balia dell’epidemia confidando alla fine nella buona sorte. Non è, forse, accaduto esattamente questo?

Ecco perché oggi la cosa più importante non è il distanziamento fisico-sociale, non sono le regole e l’ossessione del rispetto di norme astruse ma la organizzazione territoriale della sanità affinché un eventuale ritorno dell’epidemia, che inevitabilmente ci sarà o ci sarà un nuovo virus, potrà essere affrontato con la “sorveglianza attiva” come avvenuto in Veneto. La sicurezza che bisogna chiedere ed esigere non è l’immunità rispetto ai mali della vita, fisici e morali, perché questo è un desiderio impossibile che rivela semplicemente che l’uomo non è Dio; piuttosto, è una sicurezza minima che è compito preciso del governo, qualunque esso sia, e che in tal caso prende la forma dell’organizzazione territoriale che, purtroppo, non c’è.

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