Cultura, tv e spettacoli

Rampini spiega come fermare la Cina

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Federico Rampini ha pubblicato un libro, Fermare Pechino. Capire la Cina per salvare l’Occidente (Ed. Mondadori) che dimostra, in maniera inequivocabile, che per capire il mondo contemporaneo, i suoi conflitti di potenza, i suoi enormi problemi economici e ambientali, i suoi scontri di civiltà, non bisogna rivolgerci ai political scientists dei nostri Atenei – tranne qualcuno, espressioni di una technicality vuota e inconcludente – ma ai grandi giornalisti, ai corrispondenti esteri che da anni vivono nei luoghi in cui si scrive la storia dell’oggi e del domani. Nel secolo scorso, un saggio come quello in esame, avrebbe stimolato la riflessione dei filosofi ma è tramontata l’epoca in cui un Benedetto Croce o, su versanti metafisici opposti, un Augusto del Noce ritenevano che la comprensione del proprio tempo fosse il compito della filosofia.

I progressisti e le maggioranze silenziose

Va detto che Rampini non solo ci dà un quadro (preoccupante) del grande conflitto tra Cina e Occidente ma lo fa senza i paraocchi ideologici che ormai sono diventati ‘senso comune’ in tanti opinionisti. Parlando ad esempio delle “maggioranze silenziose” che votarono per Nixon e in seguito per Donald Trump, fa rilevare: «É facile ricorrere a stereotipi e caricature, descrivere quella maggioranza come un’accozzaglia di razzisti e bigotti, fascisti e guerrafondai. Ne facevano parte molti operai bianchi, in realtà, spaventati dall’accumularsi di troppi cambiamenti. La giustizia sociale inseguita negli anni Sessanta si sovrapponeva a una rivoluzione di costume, al ribaltamento dei ruoli nelle famiglie, all’insubordinazione dei giovani, alla rivolta nera in cui intervenne un terrorismo armato. E non c’era dietro un’idea di nazione da ricostruire, anzi, le frange radicali denunciavano la nazione americana come un orrore».

L’assalto a Capitol Hill

Una pagina che fa meditare giacché pone un problema, divenuto incomprensibile per i nostri maîtres-à-penser della sinistra, abbagliati dall’universalismo illuminista: è possibile una politica di vaste e incisive riforme sociali senza un senso forte dell’”appartenenza”, senza un’identità nazionale vissuta non retoricamente (e non aggressivamente nello stile di una certa destra sovranista) ma come rassicurante coscienza delle radici? Rampini, inoltre, pur considerando Trump “un individuo pericoloso” (immoralità personale, uso sistematico delle menzogne, linguaggio violento, avversione per le istituzioni democratiche) mi ha fatto guardare, sine ira ac studio, all’episodio dell’assalto a Capitol Hill. L’attacco del 6 gennaio «è stato sovversivo, violento e criminale, ha provocato cinque morti, per qualche ora in America e nel resto del mondo si è potuto dubitare della solidità della più antica liberaldemocrazia. Gli opinionisti liberal hanno gongolato: avevamo ragione noi, quelli erano proprio fascisti. Qualche centinaio di violenti – tra cui gli appartenenti a milizie dichiaratamente estremiste, suprematisti bianchi, nazi -, staccatisi da una manifestazione di qualche decina di migliaia di fan di Trump, hanno convalidato sui media progressisti la tesi per cui l’America era stata per quattro anni in mano a un aspirante Benito Mussolini. Sorvolo sulle forzature, le semplificazioni storiche, le analogie assurde. Ricordo che la sinistra rifiuta quel tipo di amalgama e di condanna sommaria quando dai suoi cortei pacifici si staccano frange di black bloc che assaltano le forze dell’ordine e le sedi di governo, saccheggiano e distruggono».

I cinesi e l’eurocentrismo dei nostri testi scolastici…

Riconosciuto il debito intellettuale verso Rampini, debbo dire, tuttavia, che alcune pagine dell’Epilogo mi hanno lasciato perplesso. Ne cito una: «Verrà un giorno in cui degli autori cinesi scriveranno i nostri manuali scolastici? La storia e la geografia non sono discipline neutre. Riflettono una visione del mondo, un sistema di valori, l’idea che ci facciamo del nostro posto nel cammino delle civiltà umane. Negli ultimi secoli questo si è tradotto in un eurocentrismo che tuttora condiziona i testi scolastici. I liceali italiani o americani studiano pochissima storia di civiltà come quella cinese, nonostante le conoscenze siano disponibili. Perfino il modo in cui accogliamo le scoperte archeologiche risente ancora della nostra autoreferenzialità. Di recente, la scoperta di una ’città dell’oro perduta’ a Luxor, in Egitto, ha avuto una grande risonanza in Occidente. Quelle rovine risalgono a tremila anni fa. Si è detto che quel ritrovamento forse non ha eguali dal 1922, quando fu rinvenuta la tomba del faraone bambino Tutankhamon. Ma, quasi in concomitanza con Luxor, una serie di scoperte incredibili si sono verificate in Cina: a Sanxingdui, vicino a Chengdu, la capitale del Sichuan. È venuto alla luce un tesoro di centinaia di oggetti preziosi, tra cui maschere d’oro, zanne di elefante e monili d’avorio, sete pregiate e statue antropomorfiche di bronzo».

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