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Acerbi assolto, avevamo ragione: punirlo “a priori” è stata una follia

Cadono le accuse di razzismo mosse da Juan Jesus. Prevale un principio garantista: non si viene condannati “sulla fiducia”

acerbi juan jesus:

È brutto dire: avevamo ragione noi. Però è così: avevamo ragione noi sul caso di Francesco Acerbi e sulla folle decisione della Nazionale italiana di non farlo partire per la tournée americana. Non perché fossimo convinti della sua innocenza o avessimo soffiate segrete, ma basandoci banalmente su un principio liberale e garantista (così poco in voga in Italia) secondo cui si viene giudicati solo in base alle prove. Non sui sospetti.

Piccolo riassunto. Lo scorso 17 marzo va in scena la partita di cartello tra Inter e Napoli. Durante il secondo tempo il difensore si avvicina all’arbitro per denunciare presunti epiteti razzisti da parte di Acerbi: “Mi ha detto negro e a me non sta bene”. Dopo la partita la questione sembrava essersi chiusa “sul campo” e i due parevano essersi chiariti con tanto di scuse da parte del difensore neroazzurro. Ma poi si è intromesso il can can mediatico.

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Scuse o meno, se Acerbi avesse ammesso di aver rivolto insulti razziali contro il giocatore del Napoli si sarebbe auto-accusato rischiando – a norma dell’articolo 28 del codice di giustizia sportiva – fino a 10 giornate di squalifica. Una enormità. Così, arrivato al ritiro della Nazionale in vista delle amichevoli negli Usa, Luciano Spalletti ha deciso “per la serenità di tutti” di dargli il benservito nonostante Acerbi sostenesse “di non aver mai pronunciato la parola ‘negro’, né di aver mai rivolto insulti razzisti” al collega in pantaloncini.

Acerbi si è inventato tutto? Ha presentato delle scuse e poi ha ritrattato per evitare la maxi squalifica? Impossibile dirlo. E possiamo anche essere d’accordo sul fatto che il dietrofront puzza lontano un miglio. Ma la giustizia non si muove, o non dovrebbe agire, per ipotesi. Per punire un “imputato”, sia pure a livello sportivo, servono dei fatti su cui basarsi o almeno “indizi gravi, precisi e concordanti in modo da raggiungere una ragionevole certezza”. Non basta insomma la denuncia della vittima per formulare una condanna (altrimenti il rischio è che domani chi volesse far squalificare un avversario per 10 giornate potrebbe inventarsi di sana pianta di aver subito un simile insulto).

Di fronte alla società e alla procura federale, Acerbi ha infatti confermato di non aver mai usato la parola “negro” e di non aver avuto intenti razzisti. E visto che né le immagini né le testimonianze hanno confermato il racconto di Juan Jesus, il giudice sportivo non ha potuto far altro che assolvere il difensore interista. Per la toga calcistica, infatti, il contenuto discriminatorio delle frasi risulta essere stato “percepito dal solo Juan Jesus”. Questo non significa mettere “in discussione la buona fede del calciatore del Napoli”, che potrebbe aver mal interpretato o davvero frainteso il contenuto della frase. Ma se anche avesse sentito bene, senza “il supporto di alcun riscontro probatorio esterno, che sia audio, video e finanche testimoniale” non è possibile condannare nessuno.

Resta dunque una domanda: se non è stato raggiunto “il livello minimo di ragionevole certezza circa il contenuto discriminatorio dell’offesa arrecata”, per quale motivo la Nazionale ha cacciato Acerbi “a priori”? Tra la versione di Juan Jesus (“mi ha offeso”) e quella del difensore (“non ho usato la parola negro”), si è dato credito alla prima “sulla fiducia”. Tra qualche mese emergerà un video o un indizio che dimostra “con ragionevole certezza” che Acerbi quella frase l’ha detta eccome? Bene: solo a quel punto potrà essere messo alla gogna e cacciato con discredito dalla Nazionale. Non prima. Non senza il pronunciamento di un giudice, come spesso accade in Italia. A volte al sistema occorre ricordare che non basta un sospetto per lapidare il mostro.

Giuseppe De Lorenzo, 26 marzo 2024

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