Achille K., o Kafka ai tempi del Ceo capitalism

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Cari amici di Zafferano.news, è uscito un nuovo romanzo ambientato nel curioso mondo del Ceo capitalism. Racconta una storia tipica di ogni “regime”, quella dei potenti che non vogliono pagare per i loro errori, e fin dall’antichità si sono inventati il “capro espiatorio”. Per una precisa scelta il libro non si trova su Amazon, non nelle librerie, ma solo digitando “Zafferano news”, sia nella versione digitale (9 euro), sia cartacea (50 euro) a tiratura limitata, numerata, con dedica personalizzata dell’autore (scrivetemi una mail a editore@grantorinolibri.it), con spedizione prioritaria via Poste. I ricavi vanno in beneficenza ai “barboni” che vivono sotto i portici del centro di Torino, in lotta contro la giunta grillina. Come “assaggio” vi invio il primo capitolo.
La mia sincera gratitudine verso chi vorrà leggermi, chi vorrà recensirlo, e così aiutare Zafferano.news. Un abbraccio affettuoso, Riccardo

Malgrado la lunga esperienza di editore questo manoscritto mi ha spiazzato. L’ho letto d’un fiato, come fosse un giallo, poi l’ho riletto con calma, come si fa con un romanzo. Un romanzo neo gotico a pasta filante, il primo giudizio a caldo. Secondo l’autore il personaggio Achille K. è la versione maschile di Maria (Maria e l’Ingegnere, Grantorino Libri, collana Zafferano), due personaggi sui quali ha molto investito. Entrambi cercano di sopravvivere nell’osceno mondo del Ceo capitalism: come? Maria nobilitando il ruolo di Ceo, seppur solo al calare della sera, Achille K. scegliendo sempre e solo la «libertà», anche quando libertà e giustizia entrano in collisione.

Da 50 anni, da quando cioè questa storia si è accampata nell’immaginario di Achille K., lui e Kafka vivono in simbiosi, in un curioso rapporto di amorosi sensi. Il libro non sarebbe mai nato senza Il Processo di Joseph K. A lato di ogni pagina del testo c’è infatti un pensiero, una frase del grande boemo. È come se Joseph K. portasse per mano Achille K. nel suo viaggio nei meandri del potere, della giustizia, della libertà. È un libro doppio, un parto gemellare dizigote, le pagine a sinistra sono tutte di Joseph K., quelle a destra tutte di Achille K. A sinistra siamo nel primo Novecento, a destra a cavallo del Secondo Millennio, un mondo nato pigro che si trascina stancamente.

Diverse ma speculari le storie dei due K. Il reato di cui è accusato Joseph K. è sconosciuto a tutti, imputato e giudice compresi, mentre l’altro viene confezionato a tavolino dai Quattro (il 4, numero esoterico, pronunciandolo fa risuonare, a mò di eco, la voce dei morti), sempre all’insaputa, sia del presunto imputato, sia del suo futuro giudice. Il lettore si trova subito spiazzato dal comportamento di Achille K. Costui dichiara essere assolutamente innocente, però sceglie di apparire colpevole per non andare in galera, rifiutando al contempo tanti quattrini, offerti dai Quattro, per rendergli dolce il ruolo di capro espiatorio. Infatti, studiato freddamente il «suo» caso, come fosse quello d’un altro, decide di dichiararsi colpevole, perché, così facendo ha la ragionevole certezza di non andare in galera.

È ovvio che se fosse stato colpevole avrebbe fatto di tutto per non andarci, se però finiva male l’avrebbe accettato, come in genere succede ai colpevoli. Invece, essendo innocente, è terrorizzato di andarci, da innocente appunto, perché sa che fisicamente non sopravvivrebbe. E su questo aspetto si dimostra molto sicuro di sé. Pare convincente. In altri termini, lui sceglie la vita da finto colpevole, rifiuta il suicidio carcerario da innocente. Se avesse combattuto per la propria innocenza (vera, ma in quel momento indimostrabile) in galera ci sarebbe andato di sicuro. Certo, sarebbe stato poi prosciolto, tanti anni dopo, per non aver commesso il fatto (che in effetti non aveva commesso), ma che sarebbe successo a lui come persona? Nessuno può rispondere a questa domanda. […]

Il virus della libertà si era impossessato della sua vita tanti anni fa e l’aveva trasformato nel personaggio libertario, e al contempo poetico, che oggi ci appare. In corso d’opera, per fissare per sempre, su carta, la successione degli eventi, scrive un capitolo del libro che ha in cantiere da anni, trattando pure questo episodio. Si spoglia, lo riempie di vita, lo dettaglia, lo arricchisce di aneddoti, lo farcisce di personaggi al contorno, inserisce qua e là battute secondo lui memorabili. Non lo fa leggere a nessuno, mai lo pubblica. Non lo fa neppure ora, nel momento di quella che sa essere l’ultima possibilità di finire quel «libro della vita», come l’ha subito chiamato ma che mai nessuno ha letto. È talmente turbato dal ricordo, vissuto intensamente, del «capitolo mancante», come lo chiama, che non sapendo come uscire dal dilemma in cui si è cacciato, lo trasforma in un romanzo, ponendosi la domanda se deve bruciare il capitolo madre da cui tutto è nato.

Questa storia racconta una lotta che ingaggia sul confine che c’è fra libertà e giustizia, questa lotta entra prepotentemente nella sua vita, senza che se ne renda conto, gli stravolge l’esistenza. Si accorge che quello che chiama il «libro della vita» non l’ha in realtà mai scritto: è rimasto un indice, con un centinaio di nomi. Lo può recitare a memoria, virgole comprese, ma non esiste nella realtà. È tutto nella sua testa, allora si dà l’obiettivo di riportarlo su carta. Prima di bruciare per sempre il capitolo, come fosse un feuilleton, ha cercato il conforto di me editore. La storia, specie se la racconta lui dal vivo (è uno straordinario novelliere gotico-contemporaneo), sembra addirittura vera, pare documentata, ma la lettura ti lascia un retrogusto di incredulità, di diffidenza, di cui non riesci a liberarti. Questo mi ha convinto che siamo in presenza di un grande romanzo d’amore, non per una donna o per un uomo, ma per la libertà di vivere e di scrivere, fuori dagli schemi del potere. È come se a lui non interessasse la giustizia, vuole che il suo fascicolo giudiziario non si chiuda mai, è disposto a qualsiasi confessione, a qualsiasi menzogna, purché gli allegati crescano, crescano a dismisura, fino ad assumere una dimensione talmente mostruosa da non essere più umanamente gestibili.

La Giustizia deve quindi ritirarsi per eccesso di prove e di confessioni, tanto, in gran parte sono false o di prossima falsificazione. È come si augurasse che il peso della burocrazia giudiziaria la seppellisca, per sempre. In certi momenti ho avuto l’impressione che fosse un furbacchione, di quelli che gettano il sasso e subito ritraggono la mano. Invece no, penso che ogni tanto sia preda di attacchi di pura poesia, e perda il lume della ragione. Il capitolo mancante lo ha esaltato e al contempo sconvolto. E se si fosse inventata questa storia, se ne fosse innamorato perdutamente, quindi la volesse valorizzare, arricchendola, ma pure manipolandola all’infinito? Sarà mica il suo cubo di Rubik letterario?

Lui ne complica sempre di più la trama, per cercare di risolverlo in sempre minor tempo. E ogni volta ci riesce. Passo dopo passo sta diventando un autore kafkiano. Ho provato tenerezza per lui quando ha dedicato il romanzo a Franz Kafka. Alla consegna del manoscritto l’ho visto felice, come si fosse sgravato di un peso. La storia che 50 anni fa l’aveva eccitato, mi ha confessato, ora non gli interessa più, peggio se ne vuole liberare. Come fu per Ernö Rubik con il suo cubo. Ma, se lo conosco, sono convinto che presto cambierà idea, lo vorrà indietro, per aggiungere un verbo, una locuzione, un paragrafo.

L’hotel Negresco, la trama, i quattro colpi di scena in successione che connotano il romanzo, permettono di approfondire l’anima dei personaggi e l’anima dei luoghi. Sono tutti simil kafkiani. Geniale l’idea dei due «Castelli» (è Kafka in purezza), ove la storia si snoda. Uno di una sconosciuta «Società», di cui nulla si sa, né come tipo di business, né come dimensioni, né dove sia ubicata, l’altro di una non meglio identificata «Procura.» I famosi Quattro non sono descritti come singoli, ma presentati a mò di ente burocratico con tratti umanoidi, solo e sempre come minaccia procedurale alla libertà. Sullo sfondo l’autore, sfocato nel suo pallore, pensoso, ricorda quello che George Simenon chiamava homme tout nu. Per la desolante solitudine che lo percorre sembra vivere nel quartiere di Boston, ove un tempo c’era il Drug Store di Edward Hopper.

E se Achille K. non fosse uno scrittore, ma un poeta che sogna di essere un imputato a vita? Si sarà mica innamorato del contesto giudiziario, del Palazzo, dei magistrati, dei cancellieri, dei burocrati giudiziari, dei suoi muri, dei suoi odori? E di lì non vuole uscire? È terrorizzato di andare in galera, ma vorrebbe passare le sue giornate nel Palazzo della Procura a leggere fascicoli, a copiarli, come gli studenti di pittura fanno agli Uffizi. Per poi tornare a casa ogni sera. Sono passati quasi 50 anni da quando dice che i fatti si svolsero, e iniziò la storia. Quasi 40 da quando iniziò l’inchiesta, il processo e la successiva sua condanna. Pochi mesi, invece, da quando Achille K. ha deciso di non chiedere la riapertura del processo, che avrebbe ottenuto con estrema facilità, e di conseguenza sarebbe stato riabilitato agli occhi del mondo. Non certo per sfiducia verso la magistratura, anzi nel romanzo essa appare impeccabile.

Anche i magistrati, come lui, vengono gabbati dai Quattro, ma non se ne accorgono. Così lui preferisce uscire di scena da colpevole certificato, vivere nei suoi amati interstizi, piuttosto che convivere con questo tipo di mondo, ulteriormente peggiorato, con l’arrivo, proprio 30 anni fa di quello che lui chiama «l’oscenità del politicamente corretto», descritto come fosse un’ideologia nazicomunista. Avvicinandosi al fine vita, può permettersi queste scelte libertarie per età, status, censo. E lui ci sguazza. Comunque Achille K. è un parente di sangue di Joseph K., e si disvela nel penultimo capitolo, quando si materializza nella sua camera da letto addirittura Franz Kafka.

Il grande boemo chiude la vicenda con un ordine esecutivo, al quale Achille K. si adegua, finalmente succube di qualcuno: del suo mito. Finalmente è felice. Comunque non è finita, nell’ultimo capitolo tornano, a modo loro, i Quattro, e il mosaico iniziale della storia si ricompone. Ieri, Achille K. mi ha mandato uno dei suoi tweet criptici: «Difendi la libertà, tu che puoi, così si invertirà il segno della giustizia». Buona lettura.

Riccardo Ruggeri, 15 marzo 2021

Zafferano.news

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