30 aprile 1993: il lancio di monetine a Craxi punto di non ritorno dell’Italia repubblicana

Zuppa di Porro: rassegna stampa del 20 novembre 2019

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Il nuovo libro di Filippo Facci, “30 aprile 1993. Bettino Craxi, l’ultimo giorno di una Repubblica e la fine della politica”, non è solo il racconto di una giornata drammatica nella storia della politica italiana e della vita dell’allora leader socialista, ma il tentativo di contestualizzare quanto successo di fronte all’hotel Raphael quella sera anche alla luce degli avvenimenti che si sono succeduti all’ormai celebre lancio delle monetine.

Facci, giovane cronista de L’Avanti! ai tempi dell’episodio, non ha bisogno di presentazioni: è stato uno dei pochi a criticare senza peli sulla lingua l’operato del Pool di Mani Pulite ancor prima che diventasse di moda. Nella sua esperienza giornalistica non ha mai avuto il timore di andare davvero controcorrente, anche a costo di rimetterci personalmente. Proprio per questo la sua analisi assume un valore inestimabile. Quella di un insider che non ha mai smesso di pensare e osservare le cose da outsider.

Gli avvenimenti che si succedono dalle 10 di giovedì 29 aprile alle 23:50 di venerdì 30 aprile 1993, tra Roma e Milano, sono noti. La Camera respinge alcune richieste di autorizzazione a procedere contro Bettino Craxi (vigeva allora l’articolo 68 della Costituzione senza l’attuale revisione) e la folla inferocita si assiepò fuori dal quartier generale romano dell’hotel dove alloggiava il leader socialista munita di monetine, sassi, banconote e via dicendo. Tutti – o quasi tutti – sciamavano dal comizio del leader del PdS, Achille Occhetto, che annunciava la sua indignazione contestualmente al ritiro dei ministri pidiessini dal neonato governo Ciampi. A loro si aggiunse anche qualche missino. All’uscita dall’hotel, che Craxi volle giustamente dalla porta principale e non dal retro, una grandinata di oggetti colpì lui e la sua auto. Il tutto in diretta tv. Fu quello l’avvio del giustizialismo di piazza italiano e del peronismo del beau monde delle nostre élite, sempre pronte a sacrificare l’ultimo idolo per stare dalla parte che più “tira” al momento opportuno.

Da quelle scene nicaraguensi l’Italia repubblicana non si è mai più ripresa. Erano, quelli, anni di grandi sconvolgimenti. Nel Paese e nel mondo. L’inchiesta di Tangentopoli, gli attentati mafiosi, l’introduzione del Trattato di Maastricht, lo SME, la fine della Guerra Fredda contribuirono a creare un clima di smarrimento. La fine dei vecchi partiti del CLN e della Costituzione del 1948 lasciò privi di un riferimento politico milioni di elettori. Ma la giustizia sommaria – o politicamente motivata – non aveva fatto i conti con il mostro che stava generando.

Andarono sviluppandosi in quegli anni alcune caratteristiche del nostro sistema politico che, nel corso del tempo, si può tranquillamente dire non abbiano certo favorito il passaggio da una democrazia bloccata a una democrazia matura. In primis, ovviamente, l’uso politico della giustizia. Stretto parente ne fu l’uso della giustizia in politica con la dismissione scenografica della toga di Antonio Di Pietro e il suo ingresso nell’arena, con tanto di elezione nel rossissimo collegio del Mugello.

Poi, l’avanzata irrefrenabile del populismo, interpretato di recente solo come un fenomeno di destra, ma che ha avuto la sua primogenitura proprio nella sinistra della questione morale, dell’appoggio incondizionato al pool, e, successivamente, nell’alleanza tra il Pd e il peronismo pauperista italiano rappresentato dal Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo. E ancora: l’esaltazione di una società civile virtuosa al cospetto di una politica di malfattori e la formazione di un “Partito dei Sindaci e degli Amministratori Locali” in contrapposizione alle vecchie scuole di partito, che formavano le classi dirigenti del Paese (non solo nella politica). Il caso dell’imprenditore di successo che “scende in campo” e la crescita elettorale delle leghe indipendentiste o secessioniste completa il quadro di una rappresentanza politica sfarinata e in disarmo, capace, oggigiorno, di liquidare partiti e leader in un biennio.

La vicenda umana e politica di Bettino Craxi, l’ultimo vero politico di razza che il Paese abbia conosciuto, segna, simbolicamente, ma non solo, la fine della politica in Italia, e il suo arretramento di fronte alle forze, tutt’altro che democratiche, del potere giudiziario, dei grand commis di Stato e dell’integrazione europea, vista come unico futuro possibile per la nazione. A distanza di 28 anni possiamo tranquillamente chiederci: ne valeva la pena? Ai lettori la (non) ardua risposta.

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