L’America non è infallibile, ma quando è assente o resta in disparte, le crisi vanno di male in peggio

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Chi, per vari motivi, spesso ideologici e strumentali, mal sopporta la presenza americana nel mondo, soprattutto quella di natura militare, descrive gli Stati Uniti come il poliziotto globale per eccellenza e spera sempre, senza mai arrendersi, in un definitivo e storico congedo. Ma la più grande democrazia del pianeta ha il dovere, ancor prima del diritto, di essere presente nelle principali crisi che minano la stabilità internazionale. E questo, proprio per la sua particolare natura, che la rende inevitabilmente diversa dal resto del mondo. A Washington, politica e informazione sono perlopiù consapevoli della particolarità a stelle e strisce, sebbene non siano mai mancate spinte isolazioniste. Lo stesso Donald Trump ha pescato consensi in quell’America che preferisce occuparsi degli affari propri piuttosto che di quelli europei, asiatici o mediorientali. Anche se poi, pensando ad Israele, all’Iran, alla Siria, al Venezuela e alla Corea del nord, si è rivelato molto meno isolazionista rispetto alle premesse della campagna elettorale. D’altra parte, chi potrebbe intervenire, militarmente e diplomaticamente, nelle più importanti aree di crisi, se non gli Stati Uniti d’America?

Le Nazioni Unite sono diventate purtroppo un carrozzone che ha già dimostrato in tante occasioni di non funzionare e soprattutto di non saper reagire tempestivamente alle emergenze. I competitor degli Usa, Cina e Russia, non sono realtà libere e democratiche, e francamente, se occorre qualcuno che sia in grado di occuparsi anche di faccende esterne ai propri confini nazionali, è senz’altro meglio avere a che fare con una democrazia dotata di pesi e contrappesi, e con un presidente che può essere messo in discussione anzitutto in patria, ancor prima che a livello internazionale. Gli insuccessi americani fanno il giro del mondo in poche ore, perché a Washington vi è un’opposizione parlamentare, autorevole tanto quanto chi governa, e i mass-media interni sono spesso ostili al potere politico. In questo periodo storico notiamo una particolare aggressività dell’informazione, da parte della Cnn in primo luogo, verso il presidente Trump. Fra parentesi, una cosa va detta: l’interventismo militare, e i possibili errori legati ad esso, vengono normalmente perdonati, in America e non, ai presidenti democratici, mentre i leader repubblicani sono soggetti ad un trattamento, dai radical-chic di tutto l’Occidente, assai più severo. Gli eventuali fallimenti cinesi o russi non creano invece lo stesso dibattito planetario generato dalle scelte americane, perché, molto semplicemente, tanto a Pechino quanto a Mosca l’opposizione non esiste o al massimo, è ridotta al lumicino, e i giornalisti devono stare bene attenti a ciò che scrivono. Dovrebbe essere addirittura banale fare ancora queste distinzioni fra Usa, Cina e Russia, ma visto che per alcuni tutto ciò non è poi così scontato, non è mai dannoso ribadire le principali differenze che intercorrono tra le potenze globali.

Naturalmente l’America non è esente da errori. Oggi assistiamo probabilmente al punto massimo di scontro fra le componenti più importanti dell’attuale e martoriata Libia, ma il caos politico e militare all’interno dello scatolone di sabbia, così Gaetano Salvemini vedeva la Tripolitania e la Cirenaica, in sostanza non si è mai interrotto, dalla caduta e morte di Muhammar Gheddafi ad oggi. Lo sbaglio grossolano della Francia di Sarkozy, del Regno Unito di Cameron, ma anche degli Stati Uniti, quelli a guida obamiana, fu quello di determinare la fine della dittatura di Gheddafi senza prevedere alcuna gestione, ordinata e collegiale, del dopoguerra. Se ci si avventura in un intervento militare internazionale, occorre assumersi tutte le responsabilità fino in fondo, altrimenti la storia, presto o tardi, presenta inesorabilmente il conto. Le guerre in Iraq e Afghanistan del presidente George W. Bush furono bersagliate da tantissime critiche. A tal proposito, ci sembra tuttavia corretto ricordare due fatti ormai storici, ancora malamente ignorati da una certa vulgata. L’attacco all’Afghanistan dei Talebani si rese inevitabile dopo la tragedia immane delle Torri Gemelle, che richiedeva una reazione rapida proprio nella tana del nemico. Per quanto riguarda l’Iraq, se è vero che la prima fase del dopo-Saddam fu contrassegnata da errate valutazioni e dall’orda dei tagliatori di teste di al-Zarqawi, è altrettanto vero come il Paese, durante gli ultimi anni della presidenza Bush, avesse riconquistato un equilibrio tutto sommato pacifico. Il Kurdistan iracheno, sempre soffocato da Saddam Hussein, ottenne addirittura un’importante autonomia dal potere centrale di Baghdad. L’avvento dell’Isis, che ha costretto i curdi a tornare a combattere per sopravvivere, è stato possibile a causa del frettoloso ed improvvido ritiro delle truppe Usa dall’Iraq, deciso da Barack Obama.

Nelle numerose stanze della Casa Bianca o del Pentagono è senz’altro possibile prendere delle cantonate, ma quando l’America, in un particolare teatro di crisi, decide di non esserci o quantomeno, di osservare da lontano gli eventi, se ne sente subito l’assenza e non si tratta quasi mai di una sensazione piacevole. Ce ne stiamo accorgendo in Libia in questi giorni, dove gli Usa preferiscono, al momento, evitare di scendere in campo per l’una o l’altra fazione. Esistono le guerre cosiddette sporche, poi vi sono quei conflitti nei quali non si sa bene chi sia il migliore o il peggiore. Nello scontro in atto fra le forze del premier libico al-Sarraj, che governa faticosamente la Tripolitania, e quelle del rais della Cirenaica, il controverso generale Khalifa Haftar, intenzionato ad impossessarsi di Tripoli, vi è un intreccio di alleanze abbastanza complicato da decifrare. Haftar è chiaramente appoggiato dall’Egitto di al-Sisi, dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi, ma non si esclude un ruolo ambiguo da parte della Francia e della Russia. Alla Francia deve essere inviato, in questo particolare momento, un forte abbraccio per il terribile incendio che ha devastato la cattedrale di Notre Dame, simbolo non solo francese peraltro, accompagnato però dall’invito a non escludere alcuna pista. Nonostante tutto, sappiamo purtroppo quanto ai nostri cugini d’oltralpe diano fastidio gli interessi energetici italiani in Libia e probabilmente, la stroncatura nei confronti di Haftar ad opera di Matteo Salvini deve essere inquadrata in questo senso. Dobbiamo però segnalare come il premier al-Sarraj non sia solo un pacioso politico sostenuto dalla comunità internazionale, bensì riceva anche un importante appoggio dalla Turchia e dal Qatar. I sauditi e l’Egitto non sono certamente campioni di democrazia liberale, ma nemmeno la Turchia di Erdogan e il Qatar, principale finanziatore della Fratellanza Musulmana, sono degli stinchi di santo. The Donald dovrebbe fare un po’ di ordine in questa matassa di interessi incrociati.

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