Il colpo di teatro di Xi Jinping, come in un film de “Il Padrino”

Un momento simbolico che suggella il passaggio della Cina da regime autoritario comunista a regime totalitario stalinista. Il primo totalitarismo tecnologico

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Ci sono fotografie che restano impresse nella memoria storica per la loro eccezionale potenza evocativa. Ci sono scene che assurgono a una dimensione simbolica e rimangono per sempre testimonianza rapida e pregnante di fenomeni storici complessi.

Credo che con grande probabilità l’immagine di Hu Jintao e Xi Jinping, che ha fatto il giro del mondo nelle ultime ore, possa a buon titolo essere considerata appartenere a queste rare categorie. In effetti, essa racchiude in un momento, in un movimento plastico quasi artistico, tutta la dirompente potenza del farsi storico della seconda potenza mondiale; certifica la definitiva fine di un’era e l’inizio di un’epoca nuova. Con un vero coup de théâtre.

Ma andiamo con ordine. Non servirà descrivere nel dettaglio quanto accaduto, o meglio, andato in scena, dal momento che ampia copertura è stata data dell’evento in sé, anche qui, sulle pagine di Atlantico, con un pezzo magistrale del professor Marsonet.

Quello che ci interessa, in questo momento, è rievocare quanto sta fisicamente succedendo nel momento rimasto impresso nella foto in questione, per coglierne la forma, il simbolismo, il significato profondo.

Una scena di assoluto simbolismo

Abbiamo parlato di un autentico pezzo di teatro: come primo punto, definiamo quindi l’ambientazione e la scenografia. Siamo alla cerimonia di chiusura dei lavori del XX congresso del Partito Comunista Cinese, in una sala gremita di alti funzionari. Il momento è quello della celebrazione per Xi Jinping, forte della volontà, uscita incontrastata dal congresso, di assumere un terzo, inedito incarico alla guida del Partito e del Paese.

Eccoci quindi alle dramatis personae: accanto a lui, alla sua sinistra, siede Hu Jintao, forse la più grande personalità vivente in Cina – definire se lo sia prima o dopo Xi, questo è esattamente il punto di tutta la rappresentazione. Ed ecco il dramma: c’è agitazione, succede qualcosa di imprevisto – per quanti dei presenti, non lo sapremo probabilmente mai.

Hu è un personaggio degno di un grande dramma: è stato per dieci anni il leader cinese, dal 2002 al 2013, ed è indubbiamente stato il fautore dell’autentica esplosione economica, commerciale e diplomatica della Cina. Una guida davvero molto diversa da Xi. Un uomo dalle manifestazioni pubbliche pacate, convinto sostenitore del concetto di “armonia”, come vedremo tra poche righe, sia in ambito di relazioni interne che, soprattutto, estere.

Ma torniamo alla scena. Hu Jintao viene avvicinato da due addetti, che lo fanno alzare senza tanti complimenti e si fanno consegnare le carte che aveva davanti a sé. Lui appare sorpreso, si mostra apertamente recalcitrante; si rivolge a Xi, verosimilmente sembra chiedergli spiegazioni, ma quest’ultimo pare mormorare poche parole con aria assente, poi si gira a guardare dall’altra parte.

I due insistono, mentre dalla sala si leva un mormorio decisamente sommesso; nessuna voce apertamente in difesa dell’uomo che ha costruito la Cina contemporanea. Hu si muove, seguendo i due quasi meccanicamente. Nel momento in cui stanno oltrepassando Xi, il momento topico della rappresentazione, Hu tenta un’ultima volta di parlargli, ma il leader neanche si volta a guardarlo. Si limita ad annuire con la testa, e continua a tenere lo sguardo rivolto altrove, alla sala.

Gli altri alti funzionari tentano di ricomporsi e darsi un tono. La seduta prosegue. Si è ormai consumato il passaggio di alta teatralità e di simbolismo assoluto, studiato – non vi è dubbio – con la massima attenzione.

Un momento di tale carica allegorica ed emozionale, da far passare in secondo piano anche l’importantissima estromissione del premier Li Keqiang, ultimamente troppo critico verso Xi. In effetti, questa scena certifica, con enorme potenza simbolica, il passaggio ormai conclamato della Cina da regime comunista a regime totalitario di natura personale, cucito intorno a un leader che promuove un culto della personalità e non tollera alcuna figura di spessore attorno a sé.

Le purghe di Xi

La teatralità è la caratteristica fondamentale di quanto accaduto. Non sono finora arrivate spiegazioni ufficiali, forse arriveranno, forse no, dal momento che Xi pare essersi messo ormai nella condizione di non dover fornire spiegazioni a nessuno. Alcuni esperti vicini alla Cina fanno riferimento a motivazioni di carattere unicamente “medico”, che avrebbero reso consigliabile “per la salute”, non è ben chiaro se di Hu o dei presenti, che l’ex leader lasciasse l’aula.

Con ogni probabilità, tuttavia, le reali motivazioni sono di carattere eminentemente politico, interconnesse alla cassatura di Li, e vanno fatte risalire alla volontà dell’attuale segretario del PCC di apparire chiaramente e senza nessuna possibilità di fraintendimenti come l’unica personalità di rilievo.

Non solo all’interno del Partito, ma del Paese. Non solo privo di potenziali figure alternative di riferimento – non per forza sfidanti in senso stretto – tra le nuove generazioni dei funzionari, ma neppure tra quelle che lo hanno preceduto. Non si tratta neppure di un evento estemporaneo; non si contano infatti più le sparizioni più o meno misteriose di alti funzionari e perfino di privati cittadini, perlomeno nella misura in cui in Cina questo termine può essere inteso, la cui figura stava per un motivo o per l’altro diventando troppo ingombrante.

Il miliardario Jack Ma, per fare un nome su tutti, ma anche il banchiere Lai Xiaomin, giustiziato l’anno scorso, e l’ex ministro della sicurezza Fu Zhenghua, condannato a morte a settembre e attualmente detenuto. Queste ultime condanne sono arrivate al termine di processi per corruzione, e i due imputati sono solo quelli di più alto profilo tra le molte centinaia che sono stati condannati in tutta la Cina negli ultimi mesi, nell’ambito di quella che è stata definita una lotta senza quartiere alla corruzione.

In realtà, si tratta in modo fin troppo evidente di processi farsa, in tutto e per tutto equiparabili a quelli andati in scena nella seconda metà degli anni ‘30 nella Mosca staliniana.

Purghe. Un movimento continuo di alti funzionari e gerarchi, che vanno ad assumere un ruolo sempre più importante e a raggiungere un grado sempre più alto e più vicino al grande leader, finché quest’ultimo, per qualche motivo, non nutre motivi di preoccupazione o di diffidenza nei loro confronti. A quel punto, la loro sorte è segnata, nella Pechino del 2022 esattamente come nella Mosca del 1937.

Questo fenomeno rappresenta un momento di svolta epocale per la Cina ma anche per tutto il mondo, dato il ruolo internazionale che ormai questo paese recita. In qualche modo, quanto accaduto il 22 ottobre 2022 è il punto più alto e più drammatico finora raggiunto dalla strategia, tipica di Xi, di fare piazza pulita di ogni personalità attorno a sé.

Come nel film “Il padrino”

E lo è non solo per l’indubbia levatura politica e storica della vittima di questa scena, ma anche, come accennato, per la studiata teatralità della stessa. Osservando quelle immagini, a me si rincorrevano nella mente alcuni rimandi a quella che è stata definita da molti critici come la più grande tragedia americana moderna, come un dramma tragico in tre atti: la saga de “Il padrino” di Francis Ford Coppola.

Pensiamoci: non sembra in qualche modo una scena già vista? Ma sì, pensiamo a una riunione di famiglie della mafia italo-americana, a un personaggio vicino al padrino che viene improvvisamente accusato di tradimento e portato via, tra il silenzio di tutti i presenti, che non osano mettere in dubbio la parola del grande capo.

Questi sono i due nomi che dobbiamo tenere ben presenti se vogliamo cogliere il senso più profondo di quanto abbiamo visto: Josif Stalin e Michael Corleone. Certo, può sembrare quasi un divertissement fine a se stesso accostare un personaggio cinematografico a uno dei più efferati dittatori della storia, ma in questo caso, come quasi sempre nella Cina di Xi, la forma non solo è sullo stesso piano della sostanza, ma le equivale, o le è perfino superiore.

Possibile che la similitudine con la tragedia coppoliana giunga fino al punto di ipotizzare che Hu fosse davvero coinvolto in una sorta, se non di complotto, di iniziativa ostile a Xi, come quella portata avanti dal premier Li, che voleva raccogliere consensi nel partito per opporsi alle politiche del segretario? Più che possibile, ma non indispensabile, per spiegare quanto accaduto.

L’approccio “soft” di Hu Jintao

Certamente, la partecipazione di Hu Jintao all’iniziativa apertamente critica verso Xi avrebbe rappresentato per il segretario un grave rischio. E questo è motivo più che sufficiente. Hu rappresentava un rischio, per la sua caratura: che appoggiasse o meno questa mozione è secondario, per Xi bastava che avesse la possibilità di appoggiarne una.

Era comunque un rischio che non voleva più correre: per lui era ormai sufficiente la presenza – l’esistenza – di un personaggio dalla levatura in qualche modo accostabile alla sua. Cerchiamo quindi di capire, giunti a questo punto, chi sia Hu Jintao, e perché rappresentasse un tale pericolo, seppur brevemente.

Abbiamo già accennato al fatto che possa essere ritenuto a buon diritto l’autentico artefice della Cina contemporanea. In effetti, quando venne eletto alla massima carica del regime comunista di Pechino, si trovò a gestire una nazione in bilico tra diversi mondi e realtà: una nascente potenza industriale ed economica, in cui decine di milioni di persone vivevano in condizioni igienico-sanitarie e alimentari da terzo mondo, un Paese costruito e guidato secondo principi di economia pianificata squisitamente marxisti, che si affacciava nel mercato globale, in modo spesso titubante quanto concupiscente.

La strategia portata avanti da Hu nei suoi 10 anni alla guida del Paese è stata imperniata sulla ricerca di una “armonia”, sulla fusione tra il perseguimento dello sviluppo e il mantenimento dell’identità, sia cinese che socialista. In campo economico, tutto questo ha preso il nome ufficiale di approccio scientifico allo sviluppo, un complesso sistema di politiche volte a ottenere una crescita quanto più rapida possibile, accompagnata da una distribuzione dei suoi effetti quanto più uniforme possibile.

Sarà utile sgombrare immediatamente il campo da ogni tentazione di idealizzazione nostalgica: Hu non è stato Gorbačëv. Non è un democratico, non voleva guidare la Cina verso la realizzazione di una democrazia liberale. Sotto di lui, la repressione è continuata, sia a Pechino che in Tibet.

Ma Hu non aveva ambizioni totalitaristiche, tutt’altro. La sua strategia, confermata dal suo stesso atteggiamento, restio ad assumere poteri assoluti rispetto al Politburo e a restare in carica troppo a lungo, è sempre stata quella di spingere per una crescita costante e una altrettanto costante applicazione di riforme “morbide”.

Smussare gli angoli della burocrazia del regime, darne una mano d’intonaco alla facciata, all’interno come all’estero, aprire il Paese al commercio e agli stili di vita occidentali, senza cessare di avere come modello la società socialista, ma allentando la stretta della pianificazione.

In politica interna, questo ha significato snellire enormemente il fardello burocratico, liberalizzare l’economia in modo tanto sorprendente, da far perfino credere a molti, qui in Occidente, che la Cina stesse sposando il libero mercato.

Ma i risultati sono stati innegabili: la crescita economica apparentemente inarrestabile, lo sviluppo notevolissimo in ogni ambito, da quello scientifico a quello infrastrutturale. All’inizio del nuovo secolo, la Cina era un gigante dai piedi di argilla, o, meglio ancora, di fango, il fango delle strade sterrate che rappresentavano le arterie di comunicazione di buona parte dell’interno sconfinato. Dieci anni dopo, il gigante si muoveva sulla più estesa rete ferroviaria ad alta velocità del mondo.

Questa grande crescita ha inevitabilmente portato a una sempre maggiore importanza internazionale della Cina, che è rapidamente diventata di fatto il centro manifatturiero mondiale, indispensabile al mondo globalizzato in praticamente ogni settore produttivo.

Come ha gestito Hu Jintao questo rapido aumento di importanza? Sempre con una tattica “morbida“: attraverso una smussatura degli angoli. Dal riavvicinamento al Giappone, considerato un partner commerciale indispensabile, fino alla distensione con Taiwan, ritenuta impensabile fino a pochi anni prima su entrambi i lati dello Stretto, senza dimenticare il distanziamento dalla Russia di Vladimir Putin, percepito come inaffidabile ed eccessivamente aggressivo con le sue aspirazioni eurasiatiche, la strategia di Hu era quella di abbassare i toni del confronto e di ricercare la tranquillità, l’armonia necessaria alla Cina per crescere e per rinforzarsi.

Le aspirazioni totalitarie di Xi

Xi Jinping ha completamente ribaltato questo assetto, sia in campo interno che estero. Apparentemente convinto che il livello di sviluppo raggiunto dalla Cina sia tale da darle la forza di sposare una politica internazionale aggressiva, si è dedicato alacremente a espandere l’influenza politica e la presenza militare cinese in tutto il mondo.

All’interno del Paese, dopo una prima fase in cui pareva non volersi discostare troppo dalle politiche precedenti, ha impresso un cambio di rotta epocale, imponendo una nuova stagione di nazionalizzazioni, pianificazione pesante e accentramento delle scelte economiche.

Tutto questo è coerente con le sue aspirazioni totalitarie, con la sua volontà di disfarsi della presenza ingombrante del Politburo e di ogni fonte di potere che non sia egli stesso. Non porta avanti una dottrina ideologica coerentemente definita, altro aspetto inedito per la Cina: il cosiddetto “Xi Jinping Thought” non è altro che una costruzione a posteriori, un florilegio delle decisioni prese e delle motivazioni addotte.

Il cassetto vuoto

In questo, il leader cinese rappresenta in pieno il concetto mirabilmente coniato da Giacomo Debenedetti per spiegare l’ethos del totalitarismo – di qualsiasi colore: il cassetto vuoto. In un sistema totalitario, l’autorità e il potere discendono da un’unica fonte, che irradia potere e autorità in modo salvifico, esentando gli esecutori da ogni colpa per le azioni più abbiette, dagli alti gerarchi, passando per i quadri, fino ai piccoli commissari politici e perfino ai membri dei plotoni di esecuzione.

Ma per questo, è necessario che tale fonte sia unica, univoca, giacché non siamo su Tatooine, e di sole può essercene solo uno. Un unico sole degno di venerazione, la cui luce spazza via ogni altra sorgente luminosa, che trae la propria autorità non da se stesso ma da un idea appunto salvifica di cui è l’incarnazione, non una dottrina preesistente, ma da essa forgiata, plasmata, modificabile a piacimento.

Una fonte che pare quasi estrarre le proprie decisioni sotto forma di carte firmate da un cassetto della propria scrivania, dove sarebbe custodita la sorgente ultima di questa verità salvifica. Un cassetto in realtà vuoto.

Una cerimonia simbolica

Questo è Xi. Un dittatore totalitario, alla guida di un regime tanto più terrificante quanto alto è il livello di sviluppo tecnologico con cui intende imporre il proprio controllo su ogni aspetto della vita dei suoi sudditi. Non tutti gli stati autoritari sono totalitari, anzi, lo è in effetti una piccola frazione. La Cina non lo era da tanto, tanto tempo, e il partito pareva in grado di prevenire questa deriva.

La presenza stessa di una figura come quella di Hu Jintao nelle sue file, Hu, l’eroico creatore della fortuna cinese, sembrava in qualche modo una garanzia che il potere, in fondo, sarebbe rimasto alla fonte più salda, il Politburo, che attinge non a un cassetto, bensì a una dottrina ben consolidata, che esprime leader che non pretendono culto della personalità.

Eppure, tutto questo stava già succedendo da anni, era necessario soltanto che avvenisse qualcosa che certificasse l’avvenuta transizione della Cina da regime autoritario comunista a regime totalitario stalinista: un momento simbolico. Un colpo di teatro. Come l’uscita di scena allegorica quanto concreta, simbolica quanto fisica, del predecessore di Xi, delle sue politiche, il giorno della consacrazione del mandato virtualmente infinito a quest’ultimo.

Alla fine, Michael Corleone domina la scena, resta solo. Fa uccidere il suo vecchio mentore Hyman Roth e suo fratello Fredo, divenuti ormai un pericolo per la sua autorità. Xi Jinping ha sgomberato platealmente il campo attorno a se da ogni figura di statura politica o economica percepita come eccessiva, e quindi pericolosa.

Xi Jinping ha voluto organizzare una cerimonia simbolica per certificare il passaggio della Cina in una nuova era: quella del primo totalitarismo tecnologico della storia. Le implicazioni a lungo termine sono infinite, come pure le supposizioni circa il possibile effetto di indebolimento sistemico apportato da questo stato di cose, seppur nascosto sotto una morsa di controllo che sarà indubitabilmente sempre più stretta.

Per quanto ci riguarda, ciò che è importante è che si prenda veramente atto che tale passaggio sia avvenuto, che la Cina è cambiata: questo non significa né negare che prima fosse una dittatura, né illudersi che adesso sia in qualche modo più semplice relazionarsi con essa, tutt’altro.

Però sarebbe impossibile giocare la partita senza questa indispensabile consapevolezza che siamo di fronte ad un autentico regime totalitario. E chissà che Xi, con questa sua mossa di teatro così vistosa, e con il suo simbolismo così potente e chiaro, non possa averci in qualche modo fornito un aiuto, in questo senso. Sempre che vorremo davvero vedere e comprendere.

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