All lives matter: sul “femminicidio” i dati smentiscono la narrazione

Essere donna in Italia è una delle condizioni più sicure al mondo. E no, il numero di donne uccise non è un “indice di maschilismo”, al contrario… Inaccettabile la colpevolizzazione collettiva del genere maschile

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Il terribile omicidio compiuto pochi giorni fa a Senago, con l’uccisione di Giulia Tramontano, una giovane donna in stato avanzato di gravidanza ad opera del compagno, ha scosso il Paese. Si tratta, evidentemente, di un atto dalla gigantesca brutalità perpetrato, tra l’altro, in modo premeditato e pianificato.

La reazione umana ad un simile atto è lo shock. È la reazione normale di qualsiasi persona comune. Ma lo shock non è, invece, la reazione appropriata o il migliore consigliere per chi, attraverso l’azione politica, divulgativa e culturale si trova ad osservare i fenomeni nella loro globalità e ad orientare leggi e scelte di indirizzo.

Chi svolge quel tipo di ruolo non deve agire “di pancia”, né cavalcare opportunisticamente le reazioni “di pancia”. Deve invece basare il proprio modo di operare su ragionamenti razionali e su princìpi, quali quelli dell’uguaglianza tra i cittadini e del carattere individuale delle responsabilità.

Forzatura concettuale

In questo senso, bisogna rigettare ogni tentativo di separare i cittadini in due categorie predefinite, una di potenziali colpevoli e una di potenziali vittime.

Serve rifiutare la forzatura concettuale introdotta dalla parola “femminicidio”, in quanto emanazione di una visione stereotipata e cristallizzata dei rapporti tra i sessi che concepisce la violenza e la prevaricazione in una sola direzione.

Mettiamo subito i puntini sulle “i”. Gli uomini non sono dei carnefici. E le donne non sono “in pericolo”. I numeri parlano chiaro. Il numero di donne uccise in Italia è, fortunatamente, molto basso. Lo è in numeri assoluti e lo è in termini relativi rispetto al numero totale di vittime.

L’Italia è il tra gli ultimi Paesi al mondo per tasso di donne uccise e le donne rappresentano solo una minoranza delle vittime di omicidio. Ogni quattro vittime donne in Italia, sono sei gli uomini che vengono ammazzati.

Un numero “molto basso” di donne uccise è comunque “troppo”? Certo, ma questo è vero anche per le vittime maschili o, se si preferisce, per qualsiasi altro “gruppo” demografico o sociale su cui ci si voglia concentrare.

Cultura patriarcale

Il numero di donne uccise non è aumentato nel tempo, anzi c’è una lieve tendenza alla riduzione negli anni. È vero che tale riduzione è meno marcata rispetto alla diminuzione di vittime maschili, che sono sempre state storicamente molte di più, ma la progressiva convergenza nel numero di vittime dei due sessi è coerente con la modernizzazione della società ed è un fenomeno osservato in tutti i Paesi occidentali in corrispondenza del raggiungimento di maggiori livelli di uguaglianza di genere.

Nei fatti, in maniera del tutto contraria ai luoghi comuni, il numero di donne uccise in un Paese non è un “indice di maschilismo”. Anzi, in termini complessivi, la correlazione si presenta proprio in direzione opposta.

Statisticamente i Paesi con cultura “patriarcale/tradizionale” hanno un basso tasso di omicidi di donne, perché le donne sono meno socialmente esposte degli uomini. Al contrario, nei Paesi con alto livello di sviluppo sociale e di emancipazione femminile (Norvegia, Finlandia, Islanda, etc.) le donne vengono uccise di più – dove il “di più” vuol dire semplicemente “tanto quanto gli uomini”.

Dati alla mano, possiamo dire, in termini generali, che essere donna oggi in un Paese come l’Italia è una delle condizioni più sicure in cui ci si possa trovare al mondo.

Delitti passionali

Esiste, certo, una specifica categoria di delitti in cui le donne sono più spesso vittime rispetto agli uomini, quella dei delitti passionali – ed è in effetti questa la tipologia di delitti che il dibattito mainstream cerca di inquadrare come “oppressione di genere”.

Vediamo allora qualche numero. Nel 2022 sono state uccise, in ambito familiare-affettivo, 102 donne contro 37 uomini. Si tratta di numeri diversi, ma non “spaventosamente” diversi. In altre parole, ci troviamo in una situazione in cui la “comunicazione pubblica” da tempo tratta come se fosse un rapporto “uno a mille”, quello che è un rapporto “uno a tre”. Questo vuol dire solo svilire ed offendere i cittadini di sesso maschile che sono vittime di violenza.

Il controllo della narrazione

Il vero problema è che, dietro al conio della parola “femminicidio”, c’è anche un obiettivo che va oltre la questione sempre e comunque grave della violenza passionale – quello di arruolare questo tema ad una più ampia campagna “femminista”.

In questo senso è evidente come al mainstream politico, culturale e mediatico non interessi riportare la questione della violenza nella sua interezza, quanto piuttosto creare “narrazioni” che per essere “funzionali” devono far sì di attribuire in maniera stabile e facilmente identificabile le categorie di “oppresso” e “oppressore”, di “vittima” e “carnefice”.

Ogni informazione ulteriore che infici la “pulizia” di queste attribuzioni e trasmetta una realtà più articolata – in cui responsabilità e colpe sono meno incasellabili e più trasversali – deve essere espunta perché indebolisce la premessa ideologica.

Il fattore immigrazione

Incidentalmente, nella statistica dei delitti passionali pesa sempre l’immigrazione, che spesso è legata a contesti culturali meno “sofisticati” dove più forti sono dinamiche di gelosia e di possesso. Le donne vittime straniere sono ormai più di un quarto del totale, praticamente sempre uccise da partner anch’essi stranieri.

Cresce anche il numero di donne italiane uccise da partner stranieri, mentre resta sostanzialmente trascurabile il numero di donne straniere uccise da uomini italiani – cosa che dovrebbe far riflettere come sia risibile il fatto che da sinistra si sventoli il tema del “femminicidio” in termini di colpevolizzazione del “maschio borghese-conservatore”.

In questo senso è interessante anche notare che i delitti passionali contro le donne avvengono per la maggior parte nel Nord Italia, cosa che sarebbe difficile spiegare come prodotto della cultura conservatrice autoctona, considerando che il livello di emancipazione sociale e culturale delle donne è sempre stato maggiore nel Settentrione – ma che potrebbe invece, più ragionevolmente, correlarsi alla demografia dell’immigrazione.

Basta strumentalizzazioni

In definitiva, il gap tra numero di vittime femminili e maschili di delitti passionali è basso. Sarebbe ancora un po’ più contenuto se limitassimo l’osservazione alle coppie di cultura italiana. Certo continua ad essere vero che più donne che uomini vengono uccisi in ambito relazionale, ma è improprio, anche e soprattutto sul piano morale, montare su questo dato una campagna politica.

La deviazione di genere sul numero di vittime di delitti passionali non è maggiore dalla deviazione che questo o molti altri delitti possono avere in correlazione con altri parametri, come possono essere la condizione sociale, il livello culturale o l’etnia.

Non esiste nessun reato in Italia per cui fotografando i colpevoli o fotografando le vittime si abbia una perfetta rappresentazione statistica del Paese secondo qualsiasi indicatore demografico o sociale. Eppure, non sarebbe pensabile in nessun altro ambito che fosse istituzionalizzata una campagna – di tutti i telegiornali, di tutti gli opinion makers, di tutti i rappresentanti pubblici – per “esaltare” il fatto che un reato è commesso da un certo “gruppo” ai danni di un altro “gruppo”.

A fronte di statistiche che vedono gli immigrati più spesso colpevoli di alcuni delitti contro cittadini italiani piuttosto che il contrario, potremmo mai pensare che all’unisono dal Tg1 a Sanremo, dai campi di calcio di Serie A, ai discorsi del presidente della Repubblica, risuonasse una campagna per mettere in guardia contro i “reati contro gli italiani” o peggio ancora “contro i bianchi”?

Evidentemente no, però questo è quello che tolleriamo avvenga ogni giorno quando si parla di “violenza contro le donne”.

Tutte le vite contano

Andiamo al dunque. Ogni omicidio è una mostruosità. Ogni persona in pericolo deve essere aiutata. Ma non possiamo più accettare strumentalizzazioni politiche. Soprattutto non possiamo accettare che, per conformismo, opportunismo o sensazionalismo, si devii dal principio fondamentale secondo cui il bene e il male sono questioni umane, non questioni di genere.

Non possiamo accettare né la colpevolizzazione collettiva del genere maschile, né tanto meno il fatto che le vittime maschili siano considerate implicitamente “di serie B”.

La decenza e il rispetto di ogni persona devono imporre di affrontare le tematiche afferenti alla giustizia con un approccio di individualismo metodologico, anziché avventurarsi nella pessima china delle semplificazioni secondo logiche “di gruppo” e del populismo mediatico-giudiziario.

Insomma, quello che dobbiamo rivendicare è che tutte le vite contano – che “all lives matter” come si direbbe in America nell’ambito di un dibattito diverso ma in qualche misura parallelo. E il fatto che un’affermazione che dovrebbe essere così pacifica, naturale e universale sia oggi sentita come “politicamente scorretta” e di “pericolosamente di destra” è segno della gravità dei tempi che stiamo vivendo e dell’impegno che sarà necessario per cercare di raddrizzare la barra.

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