Perché non serve il permesso dell’ANM per riformare la giustizia

La presunzione fatale della Magistratura di essere la suprema guida morale del Paese. L’indirizzo politico sulla giustizia non dev’essere concordato con il sindacato delle toghe

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L’associazione nazionale magistrati (ANM) non perde mai l’occasione per ricordare al Parlamento italiano che l’indirizzo politico relativo alla giustizia dovrebbe essere concordato col sindacato delle toghe anziché definito unilateralmente dalle Camere così come vogliono la Costituzione repubblicana e il sacrosanto principio della separazione dei poteri.

Il ruolo dell’ANM

Anche in occasione dell’approvazione degli ultimi provvedimenti proposti dal ministro Carlo Nordio, ed approvati dall’intero Governo, abbiamo assistito alla solita reprimenda dei rappresentanti dell’ANM secondo i quali la linea politica seguita dal Consiglio dei ministri e proposta al Parlamento sarebbe foriera di chissà quali disastri per la lotta alla criminalità dei colletti bianchi e, più in generale, per il contrasto alle forze del male che attanagliano l’universo.

La questione, infatti, sta tutta qui: al di là di ciò che si possa pensare nel merito degli aggiustamenti (chiamarle riforme mi parrebbe eccessivo) proposti dal ministro Nordio, l’ANM ritiene che il suo compito vada oltre la rivendicazione delle questioni che attengono allo status di magistrato e coinvolga, invece, la definizione dell’indirizzo politico in materia di giustizia, per mezzo di una sorta di condivisione del potere politico unitamente alla Camera dei deputati, al Senato della Repubblica, al capo dello Stato e alla Corte costituzionale.

È oramai così da decenni e per chi nutrisse ancora qualche dubbio sarebbe sufficiente leggere l’ultimo lavoro di Ermes Antonucci “La Repubblica Giudiziaria” per comprendere come il ruolo del giudice che legge e interpreta le norme per verificare se in esse rientrano determinati accadimenti storici, in Italia è tramontata da decenni.

La magistratura che si fa legislatore

La magistratura nel nostro Paese non vuole limitarsi ad accertare fatti rilevanti sotto il profilo giuridico, ad assegnare un contenuto definito alle norme e a sanzionare ciò che già è stigmatizzato dall’ordinamento; la magistratura in Italia vuole contribuire a definire ciò che è giusto e ciò che è sbagliato al livello legislativo (facoltà che dovrebbe essere riservata solo alla Corte costituzionale su impulso della medesima magistratura una volta che la legge sia entrata in vigore).

La magistratura nello stesso momento in cui afferma che il reato di abuso d’ufficio non deve essere abrogato si fa legislatore, nel senso che ritiene di potere desumere dalla lettura e interpretazione della storia, delle dinamiche delle forze sociali e delle concrete esigenze dettate dalla convivenza civile ciò è bene e ciò che è male.

Nessuno può seriamente dubitare che coloro che sono chiamati istituzionalmente ad applicare le norme debbano fornire un contributo sotto il profilo della migliore tecnica legislativa, ma la selezione dei beni giuridici da proteggere, della modalità di tale protezione e degli equilibri complessivi da raggiungere fra interessi pubblici configgenti rappresenta il cuore dell’attività legislativa che deve seguire come unica guida vincolante la Carta costituzionale.

Atto di presunzione

Non si tratta di una mera invasione di campo, né di una semplice invadenza che ridicolizza il principio di separazione dei poteri; si tratta, invece, di un non trascurabile atto di presunzione (fatale). Quella presunzione che fa ritenere alla Magistratura italiana, non tutta fortunatamente, di dovere essere la suprema guida morale ed educativa dell’intera nazione.

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