A cinquant’anni dalla morte, Guareschi per fortuna è ancora qui

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Il 22 luglio 1968, durante la residenza estiva a Cervia, Giovannino Guareschi morì colpito da un infarto, il secondo, congedandosi in silenzio e senza clamori dal suo mondo, specialmente quel Mondo Piccolo che racchiude le storie di don Camillo e Peppone, ma non dai suoi affezionati lettori che continuano ad apprezzarne l’intelligenza, l’umorismo e la creatività a cinquant’anni dalla scomparsa e mantenendo quindi in vita i personaggi dei suoi racconti. Rendergli omaggio è onestamente una perdita di tempo per il fatto che è decisamente impossibile riuscire a raccontare questo personaggio poliedrico e anarchico che ha descritto la società e la politica italiana e internazionale per decenni, riuscendo nell’arduo compito di fare della satira durante il regime fascista con colonne del settimanale “Il Bertoldo” e riproponendosi dopo la Seconda Guerra Mondiale da quelle del “Candido”, riportando un sorriso, a volte dolce e a volte amaro, in un’Italia distrutta dal conflitto, e battendosi in prima persona per evitarle un’ennesima sciagura, quella del blocco comunista alle elezioni del 1948.

Tanto basterebbe per far capire da subito chi è stato Guareschi, ma dietro alle righe di cortesia c’è un universo conservato oggi presso il Club dei 23, il centro studi portato avanti dalla famiglia di Giovannino, primo fra tutti il figlio Alberto (Carlotta, la figlia pasionaria dei racconti del “Corrierino delle famiglie”, purtroppo si è congedata anche lei, quasi tre anni fa), fatto di documenti, articoli, disegni, vignette, foto, ritagli e altro ancora, conservati a Roncole Verdi, di fianco alla casa natale del Maestro Giuseppe. Se ci passate, sarete accolti come uno di casa. Di mezzo ci sono due prigionie: la prima come internato militare nei campi nazisti dopo l’8 settembre 1943, la seconda nel carcere di San Francesco di Parma per diffamazione nei confronti di Alcide De Gasperi (vi entrò il 26 maggio 1954 per uscirne il 4 luglio del ’55) dopo una vicenda che meriterebbe di essere rivista e ridiscussa su alcune lettere attribuite a De Gasperi e risalenti al 1944 nelle quali, da rifugiato in Vaticano, suggeriva ai comandi alleati di bombardare alcuni punti nevralgici della capitale per “infrangere il morale del popolo romano”.

Ma a cinquant’anni da quel 22 luglio 1968 non è cortese rivangare certe ferite. Meglio ad esempio concentrarsi sull’animo funambolico e intellettualmente vivace di Guareschi per capire quanto sia non moderno, ma contemporaneo. Nell’era dei meme e dei tormentoni che si incontrano su internet e condivisi dai social network, troverebbero spazio gli sketch della rubrica “Obbedienza pronta, cieca e assoluta”, con le figura dei trinariciuti impegnati ad eseguire gli ordini riportati da l’Unità, ma viziati da un refuso prontamente corretto da un trafelato funzionario di partito; oppure calzerebbero a pennello per i 280 caratteri di Twitter messaggi come “Nel segreto della cabina elettorale Dio ti vede, Stalin no!” o il motto che lo accompagnò durante gli anni nei lager: “Io, anche in prigionia, conservai la mia testardaggine di emiliano della Bassa; e così strinsi i denti e dissi: ‘Non muoio neanche se mi ammazzano!’. E non morii” (da “Diario Clandestino”, Rizzoli). La sua sintassi semplice, pulita, ma non priva di contenuti, contribuisce a questa duttilità.

Guareschi era tipo intraprendente (fu giornalista, scrittore, sceneggiatore, vignettista, ma anche barista, ristoratore e imprenditore agricolo), incline alla manualità (progettò la sua abitazione di Roncole, l’Incompiuta), alla motoristica e alla tecnologia del tempo, motivo che fa pensare che si sarebbe adattato benissimo all’epoca dei computer. “I rapporti di Giovannino con le nuove tecnologie sono stati sempre molto chiari”, conferma il figlio Alberto.

“Ferma restando la sua opinione più volte espressa che il progresso non procede di pari passo con la civiltà, e che il consumismo è un figlio degenere del progresso e non è assolutamente meglio del comunismo, mio padre era attratto da ogni novità tecnologica. Nel 1947 aveva acquistato il primo magnetofono a filo, nel 1952 la prima fotocopiatrice, all’inizio degli anni sessanta la prima radiolina a transistor. Sono certo che, se fossero comparsi i primi computer quando lui era ancora in vita, ne avrebbe acquistato sicuramente uno riuscendo a fargli fare, come per il magnetofono e la fotocopiatrice, quello che voleva lui…”.

E’ stato un irrequieto lavoratore (“Da più di venticinque anni io scrivo, da più di venticinque anni io passo notti insonni davanti a una macchina per scrivere”), uno strenuo difensore della libertà umana (“La verità non si insegna; bisogna scoprirla, conquistarla. Pensare, farsi una coscienza. Non cercare uno che pensi per voi, che vi insegni come dovete essere liberi”), un fedele convinto (“Ignorare Dio è mille volte peggio che irriderlo. Chi ignora Dio è il cieco che non vedrà mai la luce”), anche se allergico al fumo delle candele, specie dopo le svolte del Concilio Vaticano II – sabato mattina GG verrà ricordato nella chiesa di Roncole con una messa nella forma di rito romano; un capo famiglia presente e complice (“Che strana cosa i figli. Quando sono qui, si avverte dolorosamente la loro presenza. Quando sono assenti, si avverte dolorosamente la loro assenza” – da “Osservazioni di uno qualunque”).

Fu un uomo di buonsenso e lungimirante. “La massa degli italiani è seria. L’umorismo non è ammesso. Umorismo vuol dire non soltanto critica, ma soprattutto autocritica. E l’autocritica è ragionamento freddo e tranquillo, mentre invece le masse vivono esclusivamente di fede politica”. Questo passaggio appare nel volume “Italia provvisoria”, pubblicato per la prima volta nel 1947, ma come negare che qualcosa sia cambiato? Ai funerali, celebrati due giorni dopo la scomparsa, oltre ai famigliari era presente giusto un manipolo di amici e conoscenti, tra cui Enzo Ferrari. Per l’Unità era morto uno scrittore mai nato; per la Democrazia cristiana ormai era un peso di cui ci si era liberati grazie alle pressioni di Fanfani perché il “Candido” chiudesse i battenti (l’ultimo numero uscì il 22 ottobre 1961, poco dopo GG ebbe il primo infarto); per gli ambienti culturali un nome come tanti (e che nome, l’autore italiano più tradotto al mondo). “Nessuno di essi si è fatto vivo”, denunciò il collega Baldassare Molossi sulla Gazzetta di Parma l’indomani. “Anche Giovannino Guareschi ormai riposa al cimitero dei galantuomini. È un luogo poco affollato. L’abbiamo capito ieri, mentre ci contavamo tra di noi vecchi amici degli anni di gioventù e qualche giornalista, sulle dita delle due mani”. Non poteva immaginare che cinquant’anni dopo, Giovannino fosse ancora qui, in gran forma.

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