Gobetti e le malattie “genetiche” italiane: statalismo e accomodantismo

Ecco le cause profonde delle tre tare nazionali. Risultato una borghesia smidollata, perennemente alla ricerca di padrini politici e protezioni statali

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Il triestino Umberto Saba, in una lettera datata 1922, scrisse al torinese Piero Gobetti le seguenti parole: Lei è l’esempio vivente di quanto ha detto Nietzsche, che il vero coraggio sorride. Tutta l’esistenza di Gobetti, in effetti, come ben colse Saba con la penetrazione del poeta, si dipanò all’insegna dell’antica e trascurata virtù del coraggio.

Figlio di un Piemonte “eretico” e austero, che giovanissimo lo orientò, come scrisse l’amico Carlo Levi, verso i problemi concreti, l’economia e la politica: un’economia e una politica per altro essenzialmente attente ai valori umani, Gobetti ebbe come maestri Gaetano Salvemini e Luigi Einaudi, che rafforzarono la sua istintiva avversione per il parassitismo e il protezionismo, stimolandolo a elaborare la visione di un liberalismo agonistico, che non s’identifica con l’azione politica di un partito storico né con una teoria economica, ma che si propone di rivoluzionare tanto la società quanto le coscienze in direzione di una maggiore libertà individuale.

Dopo la laurea, ottenuta con una tesi sulla filosofia politica di Vittorio Alfieri, il tempestoso “odiator de’ tiranni” in cui riconobbe uno spirito affine, nel febbraio del 1922 fondò la sua seconda e più importante rivista, La Rivoluzione liberale, attraverso la quale si propose di preparare “spiriti liberi” e di “illuminare gli elementi necessari della vita futura (industriali, risparmiatori, intraprenditori)”.

Le tare nazionali

Gobetti, storico per vocazione, indagò le cause profonde delle tare nazionali, che andavano addensandosi nel crescente movimento fascista, da lui immediatamente osteggiato.

Individuò tre carenze “genetiche”, per così dire, nello sviluppo dell’Italia moderna: il Rinascimento, punto nodale e tutto negativo del costume italiano, da cui derivarono la cortigianeria, il machiavellismo (degenerazione del pensiero di Machiavelli) e la piaggeria nei confronti dei potenti; l’assenza di una riforma religiosa, con chiaro riferimento alla riforma protestante, che non ripose l’uomo di fronte al divino senza interessati intermediari, ossia di fronte a sé stesso, scoraggiando così ogni forma di responsabilità individuale e di senso immanente dell’essere in società.

Anzi, la controriforma cattolica avrebbe favorito l’accettazione passiva dell’autorità, svuotato le coscienze personali dell’idea di autonomia e avvizzito lo spirito d’iniziativa da cui sorse il primo capitalismo. Gobetti, la terza carenza fondamentale, la rintracciò nella dimensione “elitaria” del Risorgimento, una brillante operazione monarchico-diplomatica, che non seppe, però, coinvolgere né le classi medie né le masse.

Una borghesia illiberale

Queste deficienze diedero come risultato una borghesia smidollata, sostanzialmente illiberale, conservatrice, incapace di accettare il liberismo e la concorrenza, sia delle merci che delle idee, perennemente alla ricerca di padrini politici e protezioni statali, nonché terrorizzata dalle rivendicazioni sociali della classe operaia.

Da queste considerazioni discesero il suo interesse per il ruolo del proletariato, che identificò come la classe sociale in ascesa destinata a realizzare l’auspicata “rivoluzione liberale”, e l’avversione viscerale al fascismo, a cui la difettosa borghesia italiana si affidò nel tentativo, rivelatosi tragico, di mantenere lo status quo.

Liberale “eretico”

La sua comprensione del marxismo e del movimento operaio, che lo portarono a scrivere sull’Ordine Nuovo di Antonio Gramsci, non lo fecero deflettere dalle sue convinzioni liberali e, tuttavia, egli restò un liberale “eretico”, estraneo al liberalismo conservatore, quando non sfacciatamente reazionario, che aveva perduto ogni connotato di radicalità, e non significava più che mantenimento del privilegio e difesa retriva degli interessi di classe.

Immaginò l’incontro tra liberalismo e socialismo, un patto che avrebbe rimesso in moto il processo di modernizzazione. Non ci sarebbe stato socialismo senza libertà, non ci sarebbe stata libertà senza giustizia sociale. Una convinzione che pose le basi per il “socialismo liberale” dei fratelli Rosselli e del Partito d’Azione.

L’immortalità della vita pubblica, l’avventurismo politico e il sistema di corruzione, nel frattempo, corrosero dall’interno lo Stato liberale, permettendo al fascismo d’insediarsi in seno alle istituzioni e accelerarne il deliquio. Quello italiano emerse, innanzitutto, come un problema di “educazione nazionale”. Molte disgrazie si spiegavano con la “rinuncia per pigrizia alla lotta politica”. Gobetti portò nella vita politica, sottratta ai partiti e alle camarille, un’esigenza etica sconosciuta.

Opposizione al fascismo

Il fascismo, fenomeno altamente italiano, gli apparve come una rivelazione e una fatalità. Con lucida comprensione dei fatti, a coloro che, come Benedetto Croce, lo consideravano un incidente di percorso, disse che non sarebbe durato meno di vent’anni. Sebbene l’avesse previsto, non esitò a tessere l’elogio della ghigliottina e a dichiarare di preferire il Mussolini “despota” al Mussolini “legalitario”, perché così la tirannide avrebbe risvegliato le sopite energie morali degli italiani: “chiediamo le frustate perché qualcuno si svegli, chiediamo il boia perché si possa veder chiaro”.

Inoltre, si oppose al disimpegno politico dello scettico Prezzolini, che proponeva una “compagnia degli Apoti”, ossia di coloro che “non se la bevono” e, dall’alto di un’opposizione intransigente, promise una lotta senza quartiere:

Non ci hanno esiliato. Ma restiamo esuli in patria. I partiti di massa si sono dimostrati inferiori alle loro funzioni. Gli uomini politici sono stati tutti liquidati. La salvezza verrà dal movimento autonomo che gli operai contrapporranno alla presente tirannide […] Prepariamo i quadri, prepariamo le correnti ideali. Mentre gli scimmiotti della setta gentilesca pensano ad arraffare cattedre per noi il problema è tutto qui: di riuscire ad essere i nuovi illuministi di un nuovo ’89.

Nel fascismo vide le “storiche malattie italiane“, riemerse dal fondo dei secoli, dopo un periodo di tiepido liberalismo: “retorica, cortigianeria, demagogismo, trasformismo, corruzione oligarchica, accomodantismo”. In esso rilevò “l’inguaribile fiducia ottimistica dell’infanzia”, tutta tesa a “contemplare il mondo semplificato secondo le proprie misure”. Mussolini, nelle sue pagine, si vide ridotto a “capo primitivo di una selvaggia banda posseduta da un dogmatico terrore”.

Le dure critiche al regime nascente e al suo capobastone, gli valsero l’inasprimento della persecuzione: pestaggi e sequestri si susseguirono senza sosta. Nel febbraio del 1926, in solitudine, prese il treno per Parigi, dove progettò di proseguire nella sua opera di editore in collaborazione con altri esuli antifascisti.

Pochi giorni dopo, però, profondamente debilitato dall’ultima e più recente aggressione fisica, si ammalò di bronchite. Assistito dagli amici più intimi, tra cui Amendola, Prezzolini e Fortunato, si spense il 15 febbraio. Non aveva ancora compiuto venticinque anni.

Gobetti riposa nel cimitero parigino di Père-Lachaise. Di fronte a questa Italia, ancora ammalata di statalismo e paternalismo, di nepotismo e fiacchezza civile, dove tutt’ora non è cessato “il vezzo di attendere dal domatore, dal deus ex machina, la propria salvezza”, le sue pagine mantengono una vitalità sconcertante. In “Risorgimento senza eroi” aveva scritto una frase che suona come il suo ideale epitaffio:

La storia è infallibile nel vendicare gli esuli, i profeti disarmati, le vittime delle allucinazioni collettive.

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