Il buon governante? Quello che non vuole condurre la nostra vita al posto nostro

Le lezioni di Reagan, Thatcher e Coolidge. Curioso pensare di risolvere i problemi con la stessa dose di statalismo che li ha creati…

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Spesso lamentiamo l’incapacità della politica di agire, di operare per il bene delle imprese, delle famiglie e dei giovani. In realtà, dovremmo lamentarci proprio del contrario, e cioè del fatto stesso che intervenga. Che la politica agisca attivamente è di per sé un male, o perlomeno lo è da una prospettiva puramente liberale. In altre parole, dovremmo chiedere al legislatore di stare il più possibile fuori dalle nostre vite, e non di tenderci la mano.

È quel passo indietro che lo Stato non fa e che invece dovrebbe fare per il bene di tutti, riducendo le proprie entrate e le proprie uscite affinché il peso delle sue inefficienze e dei suoi giochi di potere non gravi sul resto del Paese.

Il buon governante

La politica dovrebbe semplicemente creare le condizioni tali per cui siano gli individui a migliorare se stessi e le realtà a cui appartengono. Un buon governante farebbe bene a seguire l’insegnamento di Ronald Reagan, per il quale “The greatest leader is not necessarily the one who does the greatest things. He is the one that gets the people to do the greatest things”. Il buon legislatore dovrebbe inoltre ricordare che la libertà non è una concessione e che non può essere soggetta a limiti arbitrari, salvo i casi in cui questa violi la libertà altrui.

Non esiste il denaro pubblico

Il politico lungimirante non deve aver paura di risultare impopolare, conseguentemente all’attuazione di riforme necessarie e strutturalmente decisive per dare una svolta alla stagnazione economica e sociale. Dovrebbe rifuggire la demagogia dei bonus assistenziali e della spesa pubblica facile, dato che, come ci ha insegnato Margaret Thatcher, non esiste il denaro pubblico

“Let us never forget this fundamental truth: the State has no source of money other than money which people earn themselves. If the State wishes to spend more, it can do so only by borrowing your savings or by taxing you more. It is no good thinking that someone else will pay – that ‘someone else’ is you. There is no such thing as public money; there is only taxpayers’ money”.

Significa che i soldi dei contribuenti sono sacri e vanno trattati con i guanti e che, ogniqualvolta si chiede alla politica di intervenire, questa attingerà sempre alle nostre tasche per operare quegli interventi che spesso siamo noi stessi a richiedere a gran voce.

Bisogna avere un rispetto viscerale per il denaro dei cittadini, ricordando sempre che ogni risorsa che entra nelle casse dello Stato è stata prima sottratta al contribuente privato, il quale l’avrebbe certamente utilizzata meglio di qualsivoglia ufficio pubblico. La frugalità è dunque un’altra peculiarità che distinguerebbe un buon politico da tutti gli altri.

“Silent Cal”

Altro esempio degno di nota, ma poco citato, è quello di Calvin Coolidge, presidente degli Stati Uniti tra il 1923 e il 1929. Lungi dall’essere la causa scatenante della successiva grande depressione, la sua politica liberista, già inaugurata dal predecessore Harding, ha condotto l’America verso una stagione di prosperità e benessere senza precedenti.

Coolidge è lo stesso che aveva imparato sapientemente l’importanza di fermare leggi sbagliate prima ancora di approvarne di giuste. Molti lo chiamavano “silent Cal”, proprio per la sua innata attitudine a parlare poco pubblicamente e a non intervenire massicciamente nelle vite degli americani, facendo quel passo indietro così indispensabile. In poche parole, si faceva gli affari suoi: “Perhaps one of the most important accomplishments of my Administration has been minding my own business”.

Sembrava aver seguito la sua filosofia anche l’ex deputato Ron Paul che, nei suoi falliti tentativi di arrivare alla Casa Bianca, amava così riassumere la sua idea di presidenza: “I want to be president mainly for what I don’t want to do: I don’t want to run your life, I don’t want to run the economy, and I don’t want to police the world.”

Politica della conviction e non del consensus

Chiedere al politico di andare contro la propria natura è forse utopico, dato che gran parte delle proposte fatte tengono conto principalmente di come ottenere voti alle successive elezioni o di come continuare ad alimentare il clientelismo pubblico, piuttosto che della necessità di non intaccare ulteriormente gli spazi di libertà dei governati.

Una politica della conviction e non del consensus, come piaceva dire a Margaret Thatcher, è sempre stata rara da incontrare, in particolare nel nostro Paese, giacché non richiederebbe solo integrità e chiarezza di visione e di intenti, ma anche un’adeguata dose di trasparenza e corrispondenza fra promesse e fatti.

La vera svolta

È pur certo che, in assenza di una cultura liberale adeguatamente diffusa e condivisa nell’elettorato, sarà difficile pretendere di vedere, all’interno della classe dirigente, qualcuno altrettanto incline a non regolamentare, tassare o spendere più di quanto stia già facendo la mano pubblica.

Assuefatti dall’idea che non esista nulla al di fuori dello Stato e che senza di esso non si possa vivere, continueremo a concedere all’autorità centrale porzioni sempre più grandi delle nostre libertà e a reclamare la sua ala protettiva, pensando che le sue azioni siano benefiche. Curioso modo di risolvere i problemi economici quello che pretende di curarli con la stessa dose di statalismo che li ha generati.

Ci siamo totalmente dimenticati che lo Stato non è nato con l’intento di occupare poderosamente le nostre vite, legittimando la confisca di porzioni sempre più grandi del nostro reddito o la limitazione ingiustificata delle nostre libertà civili. Proviamo almeno noi per primi a non alimentare la cappa statalista che permea la quasi totalità del panorama politico.

Desideriamo una vera svolta? Smettiamo di chiederci semplicemente cosa sia meglio per noi e cominciamo a domandarci chi debba decidere cosa sia meglio per noi.

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