Lev Fëdorovič Ginzburg nasce a Odessa da una relazione adulterina tra sua madre, Vera Griliches, e l’italiano Renzo Segré. Trascorre buona parte della sua giovinezza in Italia, che sceglierà come patria d’elezione. Tra il 1924 e il 1927, a Torino, frequenta il liceo Massimo d’Azeglio, dove ha come compagni di studi Sion Segre Amar, Massimo Mila, Cesare Pavese e Norberto Bobbio. Nel frattempo, italianizza il proprio nome in “Leone”.
Decisivo per la sua formazione politica e culturale si rivela Augusto Monti, scrittore, pedagogo, intellettuale d’ispirazione gobettiana, vero e proprio catalizzatore della gioventù antifascista torinese, col quale gestirà la biblioteca della scuola. Ginzburg esprime una maturità straordinaria per la sua età. Bobbio lo ricorderà così:
Un giovane precocissimo, che aveva, a quindici anni – quando entrò al d’Azeglio come studente di prima liceo – tal vastità di cultura, tal maturità di giudizio e tal altezza di coscienza morale da suscitar meraviglia nei professori – e uno di quei professori lo ha chiamato discepolo maestro.
Lettore infaticabile, frequentatore di teatri e di sale da concerto, manifesta una intransigenza etica e una passione civile fuori dal comune, che lo accompagneranno per tutta la vita. Al tempo stesso, però, non disprezza il piacere della conversazione e le buone compagnie, anche femminili. Di lui, in un libro ingiustamente dimenticato, l’amico Sion Segre Amar ne farà un brillante ritratto, delineando un uomo di mondo ironico e affabile, capace di stappare la bottiglia di champagne “senza fare lo scoppio” e di riempire le coppe “senza che ne debordi la schiuma”.
Tra Cattaneo e Mazzini
Ginzburg raccoglie l’eredità politica di Piero Gobetti, pur mantenendo, rispetto al fondatore de “La Rivoluzione liberale”, una significativa indipendenza di stile e di giudizio. Ne condivide, attraverso la comune lettura di Carlo Cattaneo, l’amore per le autonomie locali, per la libertà del popolo minuto, per quella che oggi chiameremmo “democrazia dal basso”.
Di qua la critica ai vecchi partiti, divenuti apparati burocratici in mano a oligarchie, e la diffidenza verso lo Stato accentratore. Per quanto attento, come Gobetti, alla “questione sociale”, l’istintivo antistatalismo e l’idea di decentramento gli impediscono di collocarsi compiutamente in area socialista o comunista.
Tali temi costituiranno il nucleo del suo primo articolo, “Il concetto di autonomia nel programma di G. L.”, dove nell’idea di “autonomia” sembrano incontrarsi Cattaneo e Mazzini, l’altro suo riferimento ideale, del quale ammira la dimensione “missionaria” della politica.
Etica liberale
L’autonomia delle istituzioni, per Ginzburg, è espressione storica di un’etica liberale e di uno spirito libertario. “Parlare di autonomia nel puro senso – scrive nel sopracitato articolo – è affermare il valore morale della politica”.
Il giovane odessita esprime una concezione etica del liberalismo, che gli deriva da Croce non meno che da Gobetti, animata dall’idea, tutta moderna, che il progresso civile dell’umanità sia possibile solo là dove vi sia la massima libertà e autonomia individuale, che rendono possibile la concorrenza e il confronto, anche aspro, delle più disparate concezioni politiche, economiche, culturali, religiose. La rivoluzione, dunque, non deve solo rivoltare le sorpassate istituzioni, ma anche le coscienze degli individui.
Libertà e cultura
Date le sue origini russe, Ginzburg si dedica con fervore alla letteratura del suo Paese d’origine. Traduce Tolstoj e Puškin, ma è soprattutto ad Aleksandr Herzen che si rivolge la sua coscienza democratica. Herzen, un moscovita nato nel 1812, abbandona la dispotica Russia nel 1847 per viaggiare in Europa e dedicarsi a una missione: lottare per la libertà umana.
Dell’esule russo apprende che libertà e cultura sono legate da un vincolo indissolubile. Dove non c’è libertà non può esserci cultura, se non nella forma limitata della clandestinità, ma dove la cultura è bandita la libertà perde qualunque significato. Si tratta, ovviamente, della libertà di coltivare la propria esistenza e dignità senza supervisioni ideologiche.
Nella volontà di Herzen di stare dalla parte della parte della ragione, dei diritti politici, dell’indipendenza delle classi umili, della tolleranza, riconobbe l’ideale di civiltà europeo. Nel suo saggio storico intitolato “La tradizione del Risorgimento”, scrive: “nella politica, come in qualsiasi altro aspetto della vita degli uomini, le forze morali hanno un peso che nessuna astuzia o prepotenza saprà mai usurpare”.
Vivere una vita “giusta”, morale, per secoli è stato associato all’idea di un’esistenza solitaria e appartata. Ma Ginzburg, come Herzen, non può ritirarsi dalla cosa pubblica quando i fondamenti della civiltà sono messi in pericolo dai nemici della libertà e della giustizia (“Ci si libera dalla politica attraverso la politica”).
L’antifascismo “non esiste”
A differenza di quella dei comunisti e del “socialista liberale” Rosselli, e similmente agli amici Andrea Caffi e Nicola Chiaromonte, la sua lotta al fascismo è soprattutto culturale. Non bisogna limitarsi ad abbattere il regime, bensì sradicare le condizioni morali e culturali, oltreché sociali, che lo hanno reso possibile. Donde l’impegno profuso nella letteratura e nella storiografia. In tal senso, la casa editrice fondata con Giulio Einaudi e Cesare Pavese, e un foglio clandestino come “L’Italia Libera”, rappresentano, in nuce, la democrazia ventura e la libertà ritrovata.
Uomo saldo nello spirito, Ginzburg darà prova di fermezza nel corso del processo che lo porterà in carcere per la sua partecipazione al movimento Giustizia e Libertà. Trascorrerà alcuni mesi in cella con l’amico Sion Segre Amar, anch’egli condannato per attività antifasciste. Quest’ultimo, ricordando le loro interminabili discussioni in cella, in un racconto scriverà: “Mi insegna anche che l’antifascismo non esiste: esistono il socialismo, il comunismo, il liberalesimo. Quella parola, oggi di moda, resterà così bandita dal mio vocabolario”.
Per un autentico oppositore del regime mussoliniano, l’antifascismo “non esiste”, poiché si tratta di una locuzione troppo superficiale che, necessariamente, deve rimandare ad altri ideali. Una convinzione che pone Ginzburg in contrasto rispetto ad un antifascismo “sacralizzato” e retorico.
La morte
In seguito a numerose vicissitudini giudiziarie, il 20 novembre del 1943, Ginzburg viene arrestato e condotto a Regina Coeli. Trasferito al braccio controllato dai tedeschi, sarà torturato nel corso degli interrogatori. Nel carcere romano troverà la morte il 5 febbraio del 1944.
Nell’ultima lettera scritta alla moglie, l’amata Natalia Levi, si può leggere: “Una delle cose che più mi addolora è la facilità con cui le persone intorno a me (e qualche volta io stesso) perdono il gusto dei problemi generali di fronte al pericolo personale”.
Una missiva che, oltre a rivelare un’indomabile vivacità intellettuale, ci ricorda che con Ginzburg non muore solo uno degli intellettuali più fecondi e importanti del Novecento italiano, ma anche ciò che ancora avrebbe potuto scrivere, pensare, tradurre.
Egli ha rappresentato, e tuttora rappresenta, la speranza di una nuova Italia, pienamente libera e democratica, cosciente della propria storia, finalmente provvista di quello “stile europeo” auspicato da Gobetti e incarnatosi, seppur brevemente, nell’esistenza di Leone Ginzburg.