Nostalgia di un’America che non c’è più

Un’America in cui si respirava un’aria di libertà maggiore rispetto all’Europa, in cui si aveva l’impressione di poter fare tutto senza troppi ostacoli

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Spesso la visione di un vecchio film suscita nella mente nostalgie sopite perché si riferiscono a tempi passati. A chi scrive è capitato in questi giorni rivedendo “Forrest Gump”, il capolavoro di Robert Zemeckis girato nel 1994 e con protagonista Tom Hanks.

Molte scene mi hanno fatto subito ripensare al periodo trascorso come “graduate student”, nei primi anni ’80, all’Università di Pittsburgh in Pennsylvania. Non la cosmopolita New York, dunque, nella quale soggiornai in seguito, bensì una città industriale (allora capitale dell’industria siderurgica) espressione dell’America autentica, quella del Mid West. Al centro del mondo, nonostante le ferite della sconfitta nella guerra del Vietnam fossero più che mai fresche ed evidenti.

Un’aria di libertà

Difficile dire cosa abbia scatenato la nostalgia. Probabilmente la visione, per quanto ricostruita sul set cinematografico, di un’America che non c’è più e che, sicuramente, non ritornerà.

Da studente italiano ricordo la meraviglia per l’incredibile diffusione dei fast food, che da noi erano ancora rarissimi, e che io utilizzavo molto disponendo di una borsa di studio sufficiente per vivere, ma non certo adatta per scialare.

Stessa meraviglia quando, aprendo un conto corrente, la banca mi diede subito il bancomat, che da noi iniziava appena a diffondersi. Sensazione di onnipotenza quando capii che potevo prelevare il contante allo sportello automatico senza fare lunghe file nella filiale.

Il personaggio di Forrest Gump vive nel profondo Sud, in Alabama, quindi in un ambiente diverso dalla Pennsylvania dove io abitavo. Ma, a tale proposito, è netto anche il ricordo dell’aiuto fornito dall’università per trovare alloggio in coabitazione con altri studenti, di solito americani, con qualche raro straniero.

Era, quella, un’America in cui si respirava un’aria di libertà maggiore rispetto all’Europa. Si aveva l’impressione di poter fare tutto senza troppi ostacoli, favoriti anche dall’ottima qualità dei corsi universitari. E gli americani, almeno allora, erano tolleranti verso coloro che avevano un accento straniero. Al punto che fui pure incaricato di fare lezioni “di ripasso” in qualità di “teaching assistant”. Nessun lamento da parte dei colleghi Usa, solo qualche sorriso di comprensione per l’accento un po’ esotico.

Meno sicuri

In seguito, dopo essere tornato come “visiting professor” nella stessa Pittsburgh e in altri atenei degli Stati Uniti, mi accorsi per l’appunto che quell’America non c’era più. Più evidenti le tensioni razziali, meno sicuri della superiorità del loro sistema gli studenti e i cittadini in genere, maggiore il senso di insicurezza percepibile nella vita quotidiana. Molti intellettuali Usa, inoltre, oggi disprezzano la storia del loro Paese e, se potessero, la riscriverebbero per intero.

Ecco quindi come un film può far ripercorrere in un baleno tanti episodi della vita di un individuo, inducendolo a rimpiangere ciò che è stato e che non si ripeterà più. Con l’opportuno aiuto di brani musicali quali “California Dreaming”, “Sweet Home Alabama” e “Mr. Tambourine Man”.

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