Ogni storia di virologi è una storia di fantasmi

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“E tu pensi che faccia di te un impostore, quella minima frazione che agli altri è data scorgere? Certo, sei un impostore, certo, quello che gli altri vedono non sei mai tu. E tu certo lo sai, e tu certo cercherai di manovrare quella parte che vedono se sai che è solo una parte”.
David Foster Wallace, “Caro vecchio neon”

Vorrebbe dirle che la ama, mentre il naso si increspa, si arriccia e il moccio si unisce fitto alle lacrime, e tutto attorno rutila un carnevale di tute bianche, mascherine, presidi di sicurezza a prova di normativa anti-pandemica, salviette igieniche, tendine plastificate.

C’è il vetro, che non è davvero vetro, è plexiglass a sentirlo bene, tastandone la consistenza umidiccia e curvabile su cui si specchia dolente il suo volto rigato dal dolore, gli occhi spezzati in questo eterno istante ininterrotto, e le voci, ogni singola voce, le bestemmie, le risate, la sofferenza, le richieste mute e meno mute di aiuto, di accoglienza, tra braccia che non ci saranno, sfumate nel divieto totalitario di abbracci e calore umano.

Potrà vederla, certo, gli dice il primario, ma solo sul telefono. Lo dice con la voce dello Stato. Un Leviatano solo più piccolo, stempiato e con una cartellina su cui deve scribacchiare i dati essenziali per far celebrare quello sposalizio di morte digitale, mentre alle sue spalle degli infermieri stanno registrando un video sarcastico contro i “negazionisti”, e per farlo gli vanno a sbattere addosso canticchiando e ballicchiando la Macarena, senza chiedere scusa perché sono troppo presi dalla loro missione etica.

Lui e la madre devono sentirsi e vedersi e non-viversi sullo schermo dello smartphone, a due metri di distanza, separati dal plexiglass e dalla burocrazia. Non c’è più rispetto nemmeno per i fantasmi, pixelati come in un film porno giapponese, emozioni fluttuanti nel suono delle macchine per l’ossigeno, mentre gli infermieri mimano il loro karaoke anti-negazionista.

E quando esce da quella corsia, sgomberando il corridoio perlaceo con i corrimano argentei scrostati dalla spending review, e senza che nessuno, paziente, medico, infermiere, guardia giurata, altro paziente o parente gli rivolga un cenno, un moto, uno sguardo di simpatia, alla fine si dice che lei ha finito di soffrire, ma non ci crede.

Non ci crede davvero. Lo sa per primo lui. Sono quelle frasi che ci si rifrigge da soli per avere un qualche conforto e non sentire le ossa spezzarsi sotto il peso insonstenibile di una perdita, quando si rimira il riflesso del proprio volto tra timide luci e il carnicino velato del primo tramonto senza la persona che ci è stata cara e chiedendoci, nel profondo della nostra anima, cosa siamo, cosa siamo diventati e se questo è il costo della nuova normalità che vivremo.

Hanno negato la dignità della sepoltura. Del poter piangere liberamente. Hanno dettato regole su come masturbarsi. Su come singhiozzare. Su come il virus si espande in ogni ambiente, in sinuose ed ellittiche volute di contagio tra la terra e il cielo, ma non sui mezzi pubblici.

Ogni singolo giorno finirà per ricordargli quell’attimo, ogni parola non detta, ogni silenzio nelle veglie notturne. Il possibile e il sotteso, il sospirato e l’evocato.

Se ne esce sapendo che là fuori il mondo è avvolto dalla pandemia. Non c’è altro.

Un deserto del reale, freddo, inospitale e in perenne penombra, percorso dalle incursioni dei virologi.

La notte, la notte quando fende la strada irrorata di neon e piscio, pensando a ciò che ha perso, non si conforta con i cartoni di alcolici né con le preghiere sulla radio, e non sfida il coprifuoco per senso attardato di trasgressione, perché Dio mio come diceva Vaneigem trasgredire i tabù così comanda il progresso economico, quella è fuffa da macilenti spacciatori da centro sociale, ma solo per logica esistenziale, per spezzare l’apnea isolazionista di una casa grigia e silenziosa, passi lontani, frammentati ad alveare di solitudine: la lampada alogena piantata verso il televisore su cui virologi si paragonano a Galileo perseguitato dalla Inquisizione, virologi attaccano politici e lanciano frecciate, virologi sanno tutto di scienza ma niente di vita, virologi dicono che nessuno sta morendo di fame, virologi che blandiscono il ventre peloso della pandemia come fosse la vacca sacra dai mille capezzoli, virologi oltre lo specchio della fantasia si lanciano in ipotesi catastrofiche ed erigono vitelli d’oro alla logica tecnica della scienza.

Un rumore di fondo. Continuo. Inesorabile. Come lo stillicidio notturno di goccia di un rubinetto che perde, e una radio che gracchia sintonizzata fuori fase. Virologi anche nei sogni. A incunearsi nelle sfumature appena ambrate della sua esistenza.

Non c’è altro Dio all’infuori del virus. E vorrebbe dire che si sbagliano, ma c’è una canea, una muta latrante ed urlante, idrofoba e pazza, che sputacchia fiele contro la vita, e cementifica il tempio della solitudine pandemica, impedendogli di esprimere quel suo pensiero.

Sono le groupies del virus, i cani da guardia dell’anti-vita, chi si è tumulato dentro casa potendoci rimanere perché ha lo stipendio garantito o la pensione, chi non esce da quattordici mesi, chi si va a vaccinare spacciandosi per ciò che non è, vantando il diritto della nuova aristocrazia di sangue e pandemia, chi fa refresh sullo schermo per seguire, nemmeno fossero i cantieri dei lavori stradali, tutti i dati dei contagi, dei morti, e forse dei guariti, ma questi sono meno importanti: fuori dalla finestra, solo presagi, chimere e annunci di virologi.

Virologi sulla stampa.

Virologi per radio.

Virologi in televisione.

Virologi nelle tribune politiche.

Virologi ad X-Factor.

Virologi sull’Isola dei Famosi.

Virologi e Fedez.

Virologi sulle riviste porno.

Virologi nel dark web.

Non erano esagerazioni quei camion nella notte bergamasca. Né le bare accatastate e abbandonate, non lo era il pipistrello da cui tutto è partito, né la luna che lo accompagna mentre sa che quel video registrato sul cellulare è tutto ciò che rimane del ricordo di sua madre. Ma l’esagerazione è questa epifania di personaggi col camice, quando si ricordano di indossarlo, che si lamentano dei giornalisti passando il loro tempo intervistati da giornalisti.

Ai virologi non importa. I virologi impongono sacrifici, invocano altra carne frollata sotto il peso della disperazione, i virologi indicano gli aperitivi come fossero proiezioni di campi di morte e smashan funerari le cui ceneri inondano le città, virologi senza sentimenti e privi di qualunque forma di empatia, virologi che spezzano amore, pietà, compassione, virologi che irridono il dolore dei giovani e la solitudine degli anziani.

Non è il mondo che abbiamo perso ad importare ma l’idea di ciò che sarebbe potuto essere e che i virologi hanno imposto non potesse essere, perché si è riaperto, a loro dire, troppo presto.

Dopo quattordici mesi.

Troppo presto.

Troppo.

Presto.

Ed ora c’è il virologo che urla contro il presidente di una regione, accusandolo di fare politica quando in realtà la politica è lui a farla, da mesi, accalorandosi con sofismi e funambolismi lessicali da rivista di gnosticismo ‘Death to the World’, ospite di qualunque pulpito e di qualunque platea, ed arriverà, ne è sicuro, pure il poster, la greatest hits, i migliori successi, le ‘blastate’ come usa dirsi con un neologismo per gente di bocca assai buona, e il virologo promette nuove varianti, nuove sofferenze, nuovi disastri, nuove fiamme vitree dentro cui bruceranno le carni straziate dalla solitudine, dice che i vaccini forse non saranno sufficienti, che dovremo soffrire ancora e rimanere in silenzio. Forse in ginocchio.

Una religione. Con questi saccenti indovini. Hanno occupato tutto lo spazio e la linea d’orizzonte, e parlano, anzi pontificano di tutto.

Non c’è soluzione che possa portare ad una timida alba dopo il temporale. E se qualcuno ne adombra una ipotesi, loro lo attaccano, perché non è la pandemia ad aver creato il sensazionalismo dei virologi ma sono loro ad essere divenuti prigionieri di questi flussi di parole, come fantasmi imprigionati nella dimensione terrena e terrea di un castello.

“Non vedo nessuno morire di fame”.

Ristoratore suicida a Firenze, impiccato nel ristorante che aveva da poco rilevato per portare avanti i sogni di una vita e per sfamare la sua famiglia, e divenuto presto teatro di sogni infranti dalla furia pandemica e dal dogma virologico e da uno Stato capace solo di specchiarsi nelle dirette Facebook tra un messaggio Whatsapp e una pochette.

“Rischio calcolato… male”.

La ragazza, di lato lungo il letto, nella disperazione di una posizione fetale, si apre il braccio con una lama e vede quel rivolo color rubino di sofferenza e vita inondarle la pancia e il lenzuolo, mentre i genitori nell’altra stanza guardano ipnotizzati il virologo. E come lei centinaia di altri giovani, condannati ad essere gli appestati e gli untori della movida, sotto il dito accusatore di una politica debole, inutile, evanescente, e fantasmatica. Privati dell’amore e del primo sesso, del conforto di un abbraccio, delle litigate e dei concerti, e in poche parole della vita.

“Prevedo molti morti’”.

Non ha potuto seppellire né accompagnare in Chiesa la madre, e la ricorda solo con quel video, nel silenzio di serate tutte uguali, ma lui almeno, a differenza dei virologi, sa che i morti non sono statistiche, dietro ogni morto c’è una esistenza, degli affetti e una storia che forse nessuno racconterà mai ma che non per questo non è mai esistita.

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