Progressisti o identitari? Due facce dell’Occidente che devono imparare a convivere a “macchia di leopardo”

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In tutti i paesi, sia pure con equilibri e forme diverse, sta emergendo come mai prima un bipolarismo forte su questioni che non riguardano più l’economia, ma al contrario la concezione della società.

C’è, innegabilmente, una parte di cittadini che si muove sempre più verso avanguardie culturali “progressiste”, dal femminismo all’accoglienza incondizionata per l’immigrazione, dai diritti LGBT alla laicità. È una parte della società sempre più esigente nelle proprie rivendicazioni e sempre meno disposta ad accettare compromessi e gradualismo sulle questioni che ha a cuore.

C’è, altrettanto innegabilmente, un’altra parte delle cittadinanza ad una visione più identitaria della cultura e della società – alla famiglia tradizionale, alle tradizioni religiose e ad una maggiore uniformità demografica. È una parte della società che, a lungo si è accontentata del ruolo di “maggioranza silenziosa”, ma che di fronte all’assertività culturale del mondo progressista, in questi ultimi anni ha scelto di emanciparsi politicamente e di far sentire la propria voce senza più inibizioni.

La contrapposizione tra queste due parti di società sta raggiungendo in ogni paese dell’Occidente un’intensità senza precedenti. È l’America di Hillary Clinton contro quella di Donald Trump. È l’Italia della Boldrini contro quella di Salvini. È il mondo mediatico, culturale e associativo liberal contro la rivolta nativista, tradizionalista e sovranista che, in questi anni, prende piede.

Al di là delle semplificazioni, da una parte e dell’altra ci sono ragioni degne di considerazione. Dietro le rivendicazioni progressiste c’è il bisogno effettivo di molte persone di vedere riconosciuto il diritto ad una pluralità di scelte personali diverse, a fronte sia di discriminazioni storiche che di pregiudizi ancora esistenti. Dietro le rivendicazioni identitarie c’è la richiesta di poter esercitare il diritto di associarsi con persone di cui si condividono tradizioni e valori in modo da preservare nel tempo la coesione sociale e comunitaria – e in definitiva il concetto di un percorso “nazionale” comune che vada oltre le vite dei singoli.

Ma da una parte e dall’altra ci sono, tuttavia, anche esiti più deteriori. Il progressismo porta con sé un armamentario di politiche basate sul controllo paternalistico della società da parte di un centro politico “illuminato”; obblighi, divieti, commissioni, “pulizia linguistica” ed orientamento dei mezzi culturali all’obiettivo di creare un’“umanità nuova” dove siano aboliti il razzismo, il maschilismo, l’omofobia e qualsiasi tipo di orgoglio etnico o nazionale. È un sistema ideologico che ammette che la Storia possa andare in una sola direzione e pronto a classificare come “retrogrado” chiunque manifesti scetticismo verso qualsiasi dei suoi precetti.

L’identitarismo a sua volta mette in campo una serie di “reazioni di pancia” che in molti casi mettono in discussione non solo il progressismo ideologico, ma la modernità in sé, al punto da ricercare sovente in essa “capri espiatori” per tutto quello che va male. Spesso si tende a sviluppare una mentalità di accerchiamento che induce a chiusure culturali preconcette, anche quando non siano particolarmente giustificate sul piano pratico. Per certi versi non stupisce l’escalation della contrapposizione tra questi due fronti. Da un lato, l’aggressività culturale dei progressisti è prova per i “conservatori” dell’evidente necessità di parare ogni cambiamento che nella loro visione indebolisca la società tradizionale; da un lato, le posizioni “bigotte” sostenute da “destra” sono per la “sinistra culturale” la dimostrazione dell’urgenza di politiche sempre più attive per l’affermazione dei “nuovi diritti” di cui si sentono portatori.

Quello che, tuttavia, va rimarcato è che queste due posizioni – quella progressista e quella identitaria – sono entrambe due facce dell’Occidente e sono possibili in questi termini solo da noi. È occidentalissimo il Texas profondo, come sono occidentalissimi i quartieri alternativi di San Francisco. Lo è lo Utah mormone quanto Hollywood, o le università “liberal”. Lo è la conservatrice Baviera quanto la Berlino underground. Lo è l’Inghilterra “dimenticata” che plebiscita la Brexit quanto la Londra ricca e cosmopolita.

Certamente, ognuna delle due polarità si ritiene la legittima ed autentica rappresentanza della nostra civiltà. I progressisti affermano che sono i valori civili e sociali e le loro priorità politiche a rappresentare la vera differenza occidentale, mentre gli identitari risponderanno che le politiche progressiste di relativismo culturale minano alla radice la possibilità delle nostre nazioni di sopravvivere come comunità e che, quindi, l’Occidente come lo conosciamo
può continuare ad esistere solo se è in grado di difendere le proprie tradizioni ed il proprio profilo demografico.

Eppure, ciascuno di questi due filoni è sufficientemente rappresentativo da poter legittimamente parlare per una porzione rilevante di cittadini. La maggior parte dei paesi vive una crescente conflittualità tra questi due mondi ed il livello di pathos, se non di isteria, associato alle ultime presidenziali americane ne è una chiara testimonianza. C’è una parte importante di America che non riconosce più il suo paese da quando ha vinto Trump; ma ci sarebbe, del resto, una sezione altrettanto importante della società a stelle e strisce che si sentirebbe straniera in un paese in cui fossero imposte forzatamente a tutti le tesi dei liberal.

Ci si può ragionevolmente chiedere se una partita culturale così importante possa semplicemente essere risolta con il principio della maggioranza semplice. Trump che batte la Clinton per un voto o la Clinton che batte Trump per un voto – le idee salviniane che prevalgono per un voto su quelle boldriniane o viceversa.

Forse il principale problema, sia della prospettiva progressista che di quella identitaria, non sta necessariamente nelle idee che esprimono e nelle esigenze di cui si fanno portatrici, quanto piuttosto nella loro pretesa assolutizzante, nella missione totalizzante di cui si sentono investite e nello scandalo che provano per quanto è “altro” rispetto al loro modo di concepire la realtà.

Per trovare la quadra, probabilmente, è necessario fuoriuscire dalla prospettiva della decisione politica centralizzata e considerare che molti paesi sono ormai divisi secondo direttrici finora sottovalutate dalla politica, come ad esempio la contrapposizione tra centro e periferia: Londra, Berlino, la East Coast e la West Coast americana sono una cosa – l’Inghilterra, la Germania e l’America profonda sono una cosa diversa. C’è un mondo cosmopolita e largamente “anywhere” – per usare le parole di David Goodhart – che non solo accetta, ma in molti casi ricerca apertamente l’innovazione culturale; e c’è un mondo invece, largamente “somewhere”, che attribuisce un valore primario alla preservazione delle identità tradizionali.

È tempo probabilmente di prendere atto che nessuno di questi mondi ha il diritto di annientare moralmente e culturalmente l’altro e che quindi bisogna avere il coraggio di accettare che sulle questioni etiche, culturali e sociali il futuro dell’Occidente sia “a macchia di leopardo”. La via maestra è quella della decentralizzazione della decisione politica; su tali questioni le scelte devono essere prese a livello più basso possibile al fine di essere il più possibile rispondenti alle sensibilità locali.

Accettiamo che certe regioni possano deliberare scelte diverse rispetto ad altre e che le grandi aree metropolitane possano regolarsi in maniera differente rispetto alle zone rurali e periferiche. Tutto questo richiederebbe a tutti un esercizio di umiltà e di moderazione – sarebbe necessario riconoscere il carattere limitato della decisione politica e la possibilità che essa coesista con l’altrettanto legittima presenza, in altre aree, di scelte di segno opposto.

È necessario che un identitario digerisca che, da qualche parte, si verifichi lo “scandalo” dei matrimoni gay e della gravidanza surrogata; ed è necessario che un progressista sia pronto a riconoscere che, da qualche altra parte, si realizzi l’“indecenza” della “preferenza nazionale” o del sostegno specifico alla famiglia tradizionale.

Le scelte locali, poi, saranno naturalmente destinate a cambiare con l’evoluzione sociale e sarà il tempo a dire quali politiche si dimostreranno più compatibili con la dignità umana e le esigenze di una società prospera. Quello che conta, tuttavia, è che nessuna decisione dovrà essere vissuta come un’ordalia, né come l’affermazione di una parte del paese su un’altra. L’Occidente deve poter essere diverso come diversa è la sua società.

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