Dall’11 settembre alla pandemia, il prezzo della sicurezza

L’aeroporto dal volto umano

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Dopo quasi due anni di pandemia viviamo ancora in uno stato d’emergenza, per molti versi ingiustificato. In virtù di questa condizione, vediamo sotto i nostri occhi un’ulteriore espansione dell’intervento pubblico nel vivere quotidiano. Intrusioni legittimate con il pretesto che la prolungata emergenza richieda vincoli in nome della sicurezza collettiva.

Allo stesso tempo, nei giorni scorso abbiamo ricordato i vent’anni dall’11 settembre 2001.

Non sembrerebbe allora azzardato legare queste due realtà, chiedendosi quale sia il vero prezzo della sicurezza. L’inevitabile conflitto fra libertà individuale e sicurezza nazionale si è infatti presentato fin dal giorno successivo agli attacchi di al-Qaeda al cuore degli Stati Uniti d’America.

La corrente più libertaria del Partito Repubblicano, con figure come il senatore Ron Paul, ha da sempre criticato la massiccia intromissione del governo federale nelle vite degli americani dopo quei tragici eventi. L’allora presidente George W. Bush rassicurò più volte la nazione che la sicurezza collettiva sarebbe stata la priorità assoluta della sua amministrazione. E così il tema della national security rimase protagonista del dibattito politico per molto tempo.

I dubbi che ancora oggi ci si pone sono relativi ai mezzi adoperati dalla politica per difendere gli americani dal pericolo interno. Per molti commentatori, tra cui Patrick G. Eddington del Cato Institute, lo stato di perenne sorveglianza successivo all’11 settembre è ancora oggi vivo e vegeto. Nel suo recente intervento, “Twilight of Liberty”, Eddington illustra una macchina dell’antiterrorismo tutt’altro che rispettosa delle libertà dei cittadini, nonché del quarto emendamento alla Costituzione.

Il Patriot Act del 2001 (acronimo di Uniting and Strengthening America by Providing Appropriate Tools Required to Intercept and Obstruct Terrorism Act) forzò per l’appunto molti negozianti a rendicontare all’FBI dettagli privati dei propri clienti e dei loro acquisti. Ma è nel 2002, con l’arrivo del Department of Homeland Security, che si è innescato un meccanismo burocratico la cui portata ha fatto dell’invadenza governativa un elemento di discutibile validità. Tra l’altro, sempre secondo Eddington, il Dipartimento in questione non ha ottenuto i risultati previsti:

“[…] A completely new, huge bureaucracy cobbled together by stripping existing agencies and departments from one place on the federal organization chart and putting them under one Secretary of Homeland Security, DHS has never foiled a single terrorist attack on the U.S. in the since its creation”.

Ultimo, ma non per importanza, è il tema degli assessments. Si tratta di quei nuovi strumenti investigativi nelle mani dell’FBI per tenere sott’occhio qualsivoglia possibile minaccia terroristica, conducendo autentiche sorveglianze fisiche.

D’altro canto, gran parte dell’opinione pubblica ha accolto di buon grado il massiccio impianto di protezione innescatosi dopo gli orrendi attacchi del 2001. Prova ne è la riconferma di Bush alla Casa Bianca alle elezioni del 2004. È bene anche ricordare, come ci insegna Thomas Sowell, che grazie alla protezione ci si può permettere il lusso di ignorare la portata del pericolo:

“Unfortunately, people who are protected from dangers often conclude that there are no dangers”.

Ancora oggi il dibattito rimane aperto e forse sembra aver vinto la politica della sorveglianza a cui deve sottostare la libertà individuale, a maggior ragione in un’epoca digitalizzata come la nostra.

Lo abbiamo imparato da vicino negli ultimi due anni, e sembriamo accettarlo senza grande sgomento. Le analogie tra la lotta al terrorismo e l’attuale condizione pandemica sono dunque evidenti. In entrambi i casi è lecito domandarsi quando finirà lo stato d’emergenza; o se i mezzi impiegati per proteggerci saranno valsi la perdita di importanti libertà civili.

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