Democrazia sospesa, tra gli applausi degli ex cantori della Costituzione “più bella del mondo”

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Il superamento fattuale della Costituzione, vista e vissuta come un intralcio dagli stessi che per anni ci hanno sbomballato con la “Costituzione più bella del mondo”. Ora può essere disapplicata, nel nome dell’emergenza e della necessità di una tendenziale sospensione della democrazia…

Per lunghi, interminabili anni siamo stati educati alla bellezza della Carta costituzionale, in un tripudio di princìpi enunciati con enfasi spesso degna di miglior causa: e progressisti e solerti democratici, quando la voce di Benigni, autentico Muezzin del testo costituzionale, salmodiava con enfasi grave la metrica della Carta nata dalla Resistenza, ci ripetevano quanto eravamo fortunati, invitandoci con solerzia e lacrimuccia d’ordinanza alla difesa ad oltranza dell’articolato che tutto il mondo, a quanto pare, ci invidia.

E così, ad ogni tornata di riforme costituzionali anche solo paventate o in tempi di ascesa berlusconiana al soglio del potere, gli araldi della Carta sono scesi in campo, digrignando i denti, zigzagando in piazza in un girotondo eterno, evocando la potenza liberatrice e mitopoietica dei Padri costituenti ed invitando la plebaglia troppo cieca a riscoprire la sacra radice del nostro ordinamento costituzionale.

Per molto tempo, anche solo provare a criticare alcuni enunciati, ad esempio quelli socialisteggianti in materia economica dove lo spettro della pianificazione centralizzata e della funzionalizzazione sociale della attività di impresa e della proprietà privata aleggia potente e pressante, sembrava poter essere stigmatizzato come atto di alto tradimento.

Oggi invece, pure quei sistemi di contrappesi e di garanzie messi in piedi dai Costituenti in tema di libertà sembrano travolti, sdilinquiti, volgarizzati e fatti scendere per necessità dal piedistallo: la Carta costituzionale d’improvviso non solo può essere criticata ma può anche essere fattualmente disapplicata nel nome dell’emergenza e dello stato di necessità.

Agamben è stato spernacchiato e ridotto a povero senescente che forse dovrebbe guardare cantieri o giocare a bocce semplicemente per aver osato evocare lo stato di eccezione, l’irruzione di una ferita politica nel campo dell’ordinamento e lo stravolgimento del sistema nel suo complesso.

Abbiamo sentito ironie di ogni genere, forma, grandezza e colore, spesso in alcuni casi anche legittimate da certe boutade di chi non ha trovato di meglio che, pagliaccescamente, lanciarsi in paragoni folli o indossare addirittura le divise dei deportati.

Ma se lasciamo a terra psicotici e pasdaran dell’un fronte o dell’altro, e scendiamo coi piedi sul selciato per rimirare da vicino, sine ira et studio, la situazione per come essa è davvero vedremo, e lo vedremo senza alcun dubbio o pregiudizio, che nel corpaccione di quell’ordito garantistico costituzionale sono state inflitte non banali ferite.

Nel silenzio, o peggio nell’assenso complice di chi fino a pochi anni prima avrebbe dipinto come reincarnazione di Hitler chiunque avesse tentato una modifica dell’articolato.

Complice la emergenzialità pandemica, la nostra forma di governo ha subito una accelerazione fattuale slittando sempre più verso un centralismo decisionista nelle mani prima del governo, poi nelle mani della persona fisica del presidente del Consiglio: percorso storicamente risalente quello della esautorazione del Parlamento, sempre più vuoto, pigro, relegato a macchina ornamentale inutile incapace di produrre alcunché, se non leggi di conversione di decreti-legge e la legge di stabilità.

Per il resto, l’iniziativa legislativa è da anni ormai saldamente nelle mani del governo. Ma la pandemia ha impresso una modifica anche a questo disfunzionale assetto, facendo degenerare la stessa collegialità del Consiglio dei Ministri e accentrando ancora di più, complice non solo la gestione pandemica ma anche quella burocratica del Pnrr, nelle mani dei corpi tecnici della Presidenza del Consiglio la gestione concreta del potere.

Chiunque abbia modo di frequentare ciò che circonda il Consiglio dei Ministri, pre-Consiglio in primis, sa che vi è scarsissima condivisione dei testi su cui bisognerebbe lavorare, una coltre oscura che mette a dura prova la asserita collegialità dell’organo e che rende al contrario il presidente del Consiglio non più primus inter pares ma organo supremo e di vertice, come d’altronde piace tanto rimarcare alla stampa mainstream.

Anche il meccanismo dei Dpcm aveva militato in questo senso, poiché aveva determinato una torsione delle libertà e delle garanzie che le presidiano, gettate in pasto ad atti amministrativi.

Non stupisce, va detto, che il realismo politico della Corte Costituzionale, che in teoria dovrebbe essere organo di garanzia ma nei fatti è comunque emanazione del potere, abbia fatto salvo quel sistema che al contrario suscitava molte, molte perplessità.

Un realismo politico che va di pari passo con la timidezza della magistratura amministrativa che nel corso dei mesi ha via via confermato i provvedimenti sanzionatori e limitativi sulla base di presupposti pre-giuridici quasi sempre connessi alla emergenzialità della situazione.

Si respira un clima preoccupante, e non è mera paranoia politica.

Il clima preoccupante emerge ogni singolo giorno quando i presunti ex alfieri della Carta costituzionale dipingono le garanzie affrescate dai primi articoli della Costituzione con malcelato e crescente fastidio: l’idea della tornata elettorale viene vissuta come un fastidio o peggio come una sciagura; le libertà, da quella personale a quella di espressione del proprio pensiero o di manifestazione, vengono dipinte come intralcio al risanamento, sanitario ed economico, del Paese.

La salute pubblica da presidio concettuale sanitario va assumendo la coloritura sinistra del suo senso giacobino, di prevalenza del collettivo sull’individuo e sulle sue libertà.

Un prefetto può tranquillamente sostenere che le libertà vadano compresse: lo afferma dopo che la stampa è riuscita a stabilire la diretta correlazione tra l’aumento dei casi di positività al Covid a Trieste con le manifestazioni no-greenpass, sorvolando sul fatto che ad esempio la confinante Slovenia è uno dei Paesi più colpiti dal Covid in tutta Europa.

Naturalmente mentre le manifestazioni no-greenpass vengono considerate focolai a cielo aperto, e pertanto si può invocare la limitazione e la compressione delle garanzie costituzionali, senza che la cosa susciti lo sconcerto dei cantori della nostra Carta, le altre manifestazioni, dai rave gentilmente tollerati dai dispositivi di pubblica sicurezza alle fiaccolate pro ddl Zan, non sembrano godere di eguale riprovazione sanitaria.

Il leader dei portuali triestini Puzzer, giunto a Roma e accomodatosi in Piazza del Popolo, si è preso un Daspo urbano, dopo aver trascorso cinque ore in Questura: dovrà lasciare Roma e non farvi ritorno per un lungo anno.

Qui le autorità di pubblica sicurezza hanno mostrato un pugno di ferro che in precedenza si erano guardate bene dal mostrare, come nel caso di Giuliano Castellino, lasciato libero di arringare prima la folla e poi di guidare il corteo culminato nel tanto esecrato assalto alla sede della Cgil.

Abbiamo poi autorevoli commentatori che dalle pagine dei loro quotidiani ogni giorno che Dio manda in terra invocano la presenza di Mario Draghi come salvifico uomo della Provvidenza, evocando la necessità di una tendenziale sospensione della democrazia funestata come noto, di tanto in tanto, dalla necessità del voto. Ho utilizzato ‘uomo della Provvidenza’ con cognizione di causa: a settembre d’altronde la Cei aveva utilizzato proprio questa sfortunata locuzione, mentre ogni giorno c’è qualche intellettuale desideroso di farci sapere che Draghi deve rimanere al suo posto costi quel che costi.

E Bruno Vespa, nel suo ultimo libro, sin dal titolo, si lancia in un ardito parallelismo, parlando delle devastazioni lasciate da Mussolini e del risanamento che invece Draghi sta conducendo. Sarebbe un peccato interrompere questa emozione a causa delle elezioni del 2023, figuriamoci per la elezione a presidente della Repubblica.

Ed allora ecco evocare il semi-presidenzialismo di fatto, qualunque cosa voglia dire e dopo che per anni il presidenzialismo è stato rintuzzato e respinto al mittente come tentazione autoritaria o proprio fascista.

Ricordo nitidamente che c’è stato un non breve periodo della nostra storia, gli anni del berlusconismo, in cui procure, popolo viola, girotondini, intellettuali progressisti si stracciavano le vesti nel nome della Costituzione: la Costituzione oltraggiata, vilipesa, ferita, messa in un cantuccio, ed era un tripudio quotidiano di apologia della Carta costituzionale, contro il bruto barbaro Silvio Berlusconi.

Oggi invece niente. Silenzio di tomba. Anzi, della Costituzione si possono fare coriandoli. Fiat Draghi et pereat mundus.

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