Dipendenti contagiati, toppa peggio del buco sulla responsabilità penale dell’impresa: ennesimo incubo burocratico

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Dopo le note polemiche sulla necessità di uno “scudo penale” che tuteli le imprese e gli esercenti da improbabili processi penali per casi di contagio sul luogo di lavoro, il governo, attraverso il ministro del lavoro Catalfo, aveva promesso una soluzione. Eccone una, anzi due: una circolare Inail (la n. 22 del 20 maggio) che, di fatto, non dice nulla e un testo approvato venerdì mattina in Commissione Lavoro alla Camera come emendamento al decreto liquidità, che, nei contenuti, è la copia della circolare.

La circolare, infatti, si limita a ribadire che l’infortunio sul lavoro non determina automaticamente responsabilità del datore. E ci mancherebbe. Per aversi responsabilità penale, secondo Inail, si dovrà fare riferimento al criterio del dolo o della colpa. E anche qui, più che di un chiarimento, si tratta di un’ovvietà. Il problema, irrisolto, era semmai stabilire quando il datore di lavoro versi in una situazione di “colpa”. 

E allora ecco la soluzione passata in commissione: c’è colpa tutte le volte che risultino trasgrediti i “protocolli e le linee guida governative e regionali adottate sulla base dell’articolo 1, c. 14 del DL 16 maggio 2020, n.33” ma anche “il Protocollo 24 aprile 2020 fra il Governo e le parti sociali e successive modificazioni e integrazioni” o, se non applicabili, i “protocolli o accordi di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”. 

Tradotto: ciascuna linea-guida nazionale o regionale, ciascun protocollo è norma cautelare, e dunque fonte di responsabilità per l’imprenditore. 

Tutto a posto? Non proprio. Anzitutto, la prima qualità di una norma cautelare è la sua chiarezza. Ecco, il Dpcm 18 maggio, a cui sono allegati gran parte dei protocolli di settore, è tutto fuorché chiaro. Le linee-guida allegate appaiono spesso vaghe (così il concetto di “adeguata aereazione naturale” o quello degli accessi della clientela “in funzione dello spazio disponibile”), si sovrappongono a linee-guida regionali, che a loro volta incrociano protocolli d’intesa già siglati per alcuni settori. Senza contare i richiami, ancor più disorientanti, a “settori analoghi” (art. 1 c. 1 lett. f). O quelli “esortativi”, come per il commercio al dettaglio, per il quale, oltre al protocollo ad hoc, si “raccomanda altresì l’applicazione delle misure” anche di un altro (e diverso) protocollo. Le regole regionali, a loro volta, vengono adottate sulla base del protocollo della Conferenza delle Regioni, zeppo di norme-cornice, che spesso ricorrono a espressioni quali “si potrà” o “laddove possibile”. Non proprio geometria euclidea, insomma. 

In questo guazzabuglio, un’esimente codificata (questo il nome tecnico dello “scudo”) diventa effettivamente indispensabile. L’unica soluzione possibile, in questo senso, è l’adozione di un provvedimento legislativo – non certo di una circolare, che è un atto amministrativo di infimo valore nella gerarchia delle fonti del diritto.

E non di un atto “riepilogativo” qualunque, come l’emendamento approvato venerdì in Commissione Lavoro alla Camera, che, come detto, sembra la copia statica della circolare Inail, in quanto si limita a richiamare il rispetto di tutti i protocolli esistenti. Ma di un atto legislativo “selettivo”, che individui chiaro e tondo come fonti di responsabilità penale esclusivamente le norme nazionali in materia di a) distanziamento, b) dispositivi di protezione e c) sanificazione degli ambienti di lavoro, lasciando che tutte le altre disposizioni trovino sanzione sul piano amministrativo. E che, una volta fatto questo, come per la legge Gelli in materia di responsabilità medica, limiti la responsabilità ai soli casi di violazioni commesse con dolo o colpa grave.

Insomma, di fronte ad oltre 43 mila casi stimati di contagio sul lavoro negli ultimi tre mesi (dati Inail di stamattina), le categorie produttive necessitano di soluzioni chiare. 

Un’esimente codificata potrebbe rivelarsi indispensabile ad uniformare il comportamento delle procure, arginando possibili orientamenti “creativi”, e, soprattutto, evitando che sia un giudice a dover stabilire “a valle” l’idoneità del singolo protocollo adottato dal povero datore di lavoro all’interno del ginepraio normativo.

Detto questo, è inutile farsi illusioni: esimente o non esimente, in presenza di una denuncia (del lavoratore, di un sindacato, della pubblica amministrazione), l’accertamento giudiziario sarà comunque inevitabile. Proprio come per la legittima difesa, qualunque sia la latitudine della norma di riferimento, sarà sempre l’autorità giudiziaria a doverla accertare. 

D’altro canto, si può scommettere che i casi dibattimentali si esauriranno spesso in un’estenuante disputa epidemiologica tra consulenti sull’origine del contagio. E allora la vera sfida è quella di creare corsie preferenziali per i procedimenti che dovessero eventualmente aprirsi, affinché, una volta accertato il rispetto delle regola cautelari basilari (su distanze, dpi e sanificazione), possano chiudersi auspicabilmente nel più breve tempo possibile. 

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