Ha ancora senso parlare di “internazionalismo liberale”?

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“Internazionalismo” è una parola carica di significati e di stratificazioni storiche. Ne abbiamo sentito parlare sin dai banchi di scuola, e negli ultimi secoli è stata utilizzata, spesso a sproposito, da politici, storici e filosofi. Esiste – o esisteva – l’internazionalismo marxista e, per quanto meno citato, rimane sulla scena quello liberale.

Oggi il termine assume connotati un po’ diversi. Lo si voglia o no, l’internazionalismo è entrato nella nostra vita quotidiana e il “villaggio globale” di cui parlava Marshall McLuhan è più un dato di fatto che oggetto di teorizzazione. Ne abbiamo la prova ogni giorno, vista la possibilità di entrare in contatto con chiunque in qualsivoglia parte del mondo (Cina comunista esclusa, ovviamente).

In ambito universitario, per esempio, la dimensione internazionale della formazione ha assunto un peso decisivo e forte è la spinta a creare percorsi di studio validi in più Paesi. Un’attualizzazione, se vogliamo, del senso originario del termine universitas: una comunità di sapere che bada poco alla provenienza nazionale e molto all’eccellenza in sé.

Questa spinta a valicare il “confine” – sia geografico sia culturale – ai nostri giorni è vivissima nei giovani, più consapevoli rispetto alle vecchie generazioni dell’importanza di vedere il mondo in maniera globale. Ci sono naturalmente i controesempi, ma non mi sembrano tanto rilevanti da inficiare il quadro d’insieme.

Tuttavia in un recente articolo, intitolato “L’internazionalismo liberale è morto, e anch’io non mi sento molto bene”, uscito in traduzione italiana il 20 dicembre, lo storico canadese Michael Ignatieff si chiede se si possa ancora parlare di qualcosa di simile. Il titolo lascia intendere di no, ma l’analisi di Ignatieff, un liberal progressista nel senso anglosassone del termine e autore, tra l’altro, di una bella biografia di Isaiah Berlin, non è così chiara.

C’è chi continua a pensare che “internazionalismo” da un lato e “liberalismo” dall’altro siano in pratica inscindibili. O, per dirla in modo diverso, che il primo sia parte del Dna del secondo. Cos’è più internazionale del libero mercato? Sembra addirittura una domanda retorica.

È pur vero che i confini, soprattutto nel nostro continente, delimitano culture, lingue e tradizioni che hanno origini lontanissime. Perfino l’americano Samuel Huntington, autore del celebre “Lo scontro delle civiltà”, scriveva che “posto dinanzi a una crisi d’identità, ciò che per un uomo conta più di ogni altra è il sangue, la fede e la famiglia”. E la “comunità di sangue e di destino” è un tema classico di tanta filosofia politica.

Giusto quindi che si rispettino la storia e i confini che di essa sono parte essenziale. Che cosa ci impedisce, tuttavia, di pensare alla possibilità che in futuro i confini perdano il loro carattere di barriera che esclude? O siamo condannati davvero a vivere una storia che si ripete con cicli sempre uguali?

Se così fosse i padri fondatori delle Nazioni Unite, dell’Unione europea e delle altre organizzazioni transnazionali sarebbero solo dei poveri illusi, visionari incapaci di capire che nulla può veramente cambiare nei rapporti tra gli esseri umani. Se il sangue è l’elemento decisivo, il destino diventa ineluttabile (come teorizzava Oswald Spengler), e la difesa ad ogni costo dell’identità resta l’unico strumento di difesa.

Ignatieff nota però che l’internazionalismo liberale ha promesso di promuovere la democrazia auto-nominandosi difensore dei diritti umani all’estero. Anche mediante l’intervento militare e il cosiddetto “nation building”, così clamorosamente falliti in Afghanistan, Siria, Libia e altri contesti. Ma aggiunge un altro fatto decisivo. Tali azioni si sono sempre e comunque basate sulla potenza bellica degli Stati Uniti, unica nazione occidentale a possedere la forza di combattere i grandi regimi autoritari, di destra e di sinistra.

Lo hanno fatto negli anni ’40 del secolo scorso salvando l’Europa e il mondo dal nazismo tedesco, dal fascismo italiano e dall’imperialismo panasiatico nipponico. Hanno ripetuto l’operazione in seguito intervenendo in Corea, ma in questo caso la loro missione “salvifica” non venne altrettanto apprezzata, tanto è vero che, ancora oggi, c’è chi crede sia stata la Corea del Sud ad aggredire quella del Nord, e non viceversa. Eppure la storia della dinastia comunista dei Kim dovrebbe convincere anche i più scettici.

Per non parlare della guerra del Vietnam, ferita che la società americana nel suo complesso non è mai riuscita a rimarginare, riservando tra l’altro un’accoglienza spesso indecorosa ai giovani reduci che erano spesso andati volontari a combattere nel Paese asiatico. Anche in questo caso la sinistra è riuscita a convincere l’opinione pubblica che gli americani e i loro alleati del Sud fossero dei criminali incalliti, riservando ai vietnamiti del Nord e ai vietcong la patente di eroi puri e senza macchia. In realtà Ho Chi Minh era uno stalinista e, dopo la vittoria, il Paese unificato dai comunisti divenne ben presto un grande campo di concentramento. Soltanto ora, dopo l’apertura all’Occidente, sta cominciando a cambiare.

Il fatto è che solo gli Usa si sono davvero impegnati militarmente per contrastare le dittature del secolo scorso e del nostro. I tremebondi alleati europei si sono sempre limitati a dichiarazioni di principio. Gli americani hanno pagato un prezzo altissimo in termini di caduti sul campo, in numero assai maggiore rispetto agli europei. Quest’ultimi, però, hanno sempre preferito non affrontare l’irritazione delle loro opinioni pubbliche per le vittime di guerra e, ora, anche gli Usa stanno adottando lo stesso atteggiamento. Perché, in fondo, dovrebbero essere solo loro a versare sangue in imprese che riguardano invece l’Occidente nel suo complesso?

Anche per questo Ignatieff ritiene che sarà difficile, negli Stati Uniti, ricostruire il sostegno interno a politiche di internazionalismo liberale, visti i fallimenti del recente passato. D’altro canto egli non crede a quella che è probabilmente l’unica alternativa possibile, il “realismo in politica estera” teorizzato, tra gli altri, da Henry Kissinger. A suo avviso tale realismo scredita le pretese dell’universalismo umano, ma si deve notare che questo può essere proprio un vantaggio. Potrebbe, per esempio, indurre gli Usa a non affrontare contemporaneamente Russia e Cina, vista anche l’inconsistenza degli alleati europei.

Eppure le conclusioni dell’autore, al di là dei sentimenti, hanno un’impronta realista. Riconosce che dopo il 1989 “siamo caduti preda dell’illusione che la politica mondiale fosse la storia della libertà”. Non è così purtroppo, giacché la storia “è in realtà storia di imperi che sorgono e crollano, dell’ordine raggiunto con la violenza che lentamente lascia il posto, ancora una volta, al caos”. Considerazioni spengleriane, come si può ben notare. L’autore ritiene che l’impero americano stia lentamente crollando, e che l’internazionalismo liberale che a tale impero è agganciato altro non possa fare se non tenere a bada il caos.

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