I maggiori Paesi arabi con il piano di pace di Trump. Autorità palestinese all’angolo

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Il giorno dopo la presentazione del “Piano del Secolo” del presidente Usa Donald Trump, quasi tutti i commentatori si sono focalizzati sul contenuto, ritenendolo rappresentativo di una parte sola, quella israeliana. Una lettura parziale e priva di memoria storica, perché se anche così fosse, non sarebbe che il risultato del piattino che si sono preparati da soli i palestinesi. Un piattino cucinato da ben prima del 1948, quando la dirigenza palestinese scelse di stare con Hitler e non con gli Alleati, proseguito con il rifiuto della Risoluzione 181 per la spartizione della regione palestinese e finito non oggi, con il prevedibile no al piano di Trump, ma con il rifiuto al 100 per cento delle loro stesse richieste accolte nel 2008 dall’allora premier israeliano Ehud Olmert (e ad ammetterlo è lo stesso negoziatore palestinese Erakat…).

Ma c’è di più. Oltre al contenuto del “Piano del Secolo”, bisogna guardare al suo significato diplomatico. Se sul contenuto possiamo discutere e ognuno può farsi l’opinione che preferisce, sul piano diplomatico le chiacchiere stanno a zero: per Trump è un vero e proprio successo. La presentazione del “Piano del Secolo”, infatti, segna il definitivo abbandono dell’odio verso lo Stato d’Israele di buona parte del mondo arabo moderato e il massimo isolamento della “causa palestinese”.

Il piano è stato presentato il 28 gennaio, il giorno dopo la Giornata della Memoria. Quest’anno, per la prima volta, a ricordare la Shoah è stato anche un gruppo di clerici sunniti di altissimo livello guidato dall’ex ministro della giustizia saudita Mohammed al-Issa. Al-Issa non è importante solo perché è stato un ministro saudita, ma anche perché segretario della Lega Musulmana Mondiale, un ente con sedi praticamente in tutto il mondo – in Italia la sede è alla Grande Moschea di Roma – che ha un ruolo centrale nell’Islam sunnita.

Martedì 28 gennaio 2020, alla Casa Bianca ad ascoltare Trump presentare il piano non c’erano solo i rappresentanti di Israele, ma anche gli ambasciatori arabi negli Stati Uniti di Oman, Emirati Arabi Uniti e Bahrain. Per la cronaca, in Bahrain ha sede il comando americano dell’operazione International Maritime Security Construction, per il pattugliamento del Golfo Persico (o Arabico fate voi), che vede la partecipazione dei principali Paesi arabi sunniti (Arabia Saudita, Emirati, Qatar, Kuwait e Giordania) e di Israele come importante partner a livello di intelligence.

La sera stessa della presentazione del piano e il giorno dopo, 29 gennaio, sono arrivati gli apprezzamenti del Qatar, dell’Arabia Saudita e dell’Egitto, che hanno pubblicamente lodato lo sforzo del presidente Trump per riavviare il processo di pace tra israeliani e palestinesi e, al contrario di questi ultimi, hanno auspicato che siano proprio gli Stati Uniti a rilanciare e guidare il negoziato.

I palestinesi, come suddetto, restano vittime dei loro rifiuti e delle loro periodiche alleanze internazionali sbagliate. Da quando scelsero Hitler a quando scelsero Saddam nella seconda Guerra del Golfo, fino ad arrivare ad oggi: opponendo ancora un rifiuto, non hanno più nemmeno la possibilità di scegliersi i loro alleati.

Chi resta al fianco dell’Autorità palestinese e del suo ennesimo “no”? L’Ue con i suoi comunicati antichi sul diritto internazionale e i confini del ’67 non fa nemmeno testo. Oltre ad essere un partner minoritario dal punto di vista diplomatico (anche se non commerciale), è divisa al suo interno sia nei rapporti con Trump che verso lo Stato d’Israele (le posizioni dei Paesi dell’est infatti sono ben diverse dalla linea ufficiale di Bruxelles). Tralasciamo anche Russia e Cina, due Paesi importanti ma che si limiteranno anche loro a dichiarazioni di facciata.

Allora chi resta concretamente? Due partner locali: l’Iran degli ayatollah e la Turchia di Erdogan. Del primo, probabilmente non serve neanche parlarne: un regime che predica la distruzione di Israele e che nega l’Olocausto. Il secondo, preso nelle velleità neo-ottomane di Erdogan, si diverte quotidianamente ad insultare Israele per mantenere alta la bandiera dell’Islam politico, salvo poi mandare decine di navi commerciali verso il porto di Haifa e sperare che Israele gli chieda di trasportare il gas del Mediterraneo verso l’Europa…

Soprattutto, però, due attori che sono ormai visti nella regione come oppressori e non difensori degli oppressi. E questo non è un dato da sottovalutare, considerate le proteste in corso in Iraq e Libano contro l’interferenza del regime iraniano. Proteste che, sulla stessa onda, potrebbero scoppiare tra qualche tempo contro Erdogan, non solo in Turchia, ma anche nelle aree dove Ankara finanzia milizie paramilitari per i suoi fini politici.

E cosa succederà se e quando, un giorno, il popolo turco e quello iraniano riusciranno davvero a liberarsi dei regimi autoritari che li governano? Quel giorno, per esempio, i palestinesi scopriranno che lo slogan “No Gaza, No Libano la mia vita solo per l’Iran” avrà effetti concreti: non avranno più nemmeno Teheran dalla parte dei loro “no”. Quel giorno, davvero, i palestinesi resteranno definitivamente isolati e comprenderanno, forse, il vero prezzo dei loro rifiuti, ormai quasi centennali…

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