La condanna di Zhang Zhan ci ricorda le menzogne e la censura di Pechino sulle origini del virus

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Mentre tutti ancora s’interrogano sulla miracolosa sparizione del Covid-19 in Cina dovuta – a detta della propaganda del regime – all’efficace lotta di contrasto e prevenzione condotta dal Partito Comunista, giunge notizia della condanna di Zhang Zhan, avvocatessa, blogger e attivista democratica che aveva subito cercato di informare la comunità internazionale circa quanto stava avvenendo a Wuhan lo scorso inverno, agli inizi dell’epidemia.

Si rammenteranno le immagini relative alla primissima fase della pandemia, con le corsie degli ospedali invase di malati moribondi, le persone che crollavano in strada colpite dalla febbre alta e l’intervento dei militari che sigillarono immediatamente la città. Pechino non ha mai fornito notizie precise circa le origini del virus. Si diffuse realmente partendo dal wet market di Wuhan? Oppure si trattò del tragico esito di un esperimento scientifico finito male?

Nessuno ne sa ancora niente e in pochi osano parlarne. La Repubblica Popolare ha invece cercato di bloccare i tentativi d’inchiesta dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, organismo nel quale ha una grande influenza. E poi ha pure fatto circolare notizie volte a diffondere la tesi che il virus non abbia affatto origini cinesi, ma sia in realtà nato in altri Paesi tra i quali – come sappiamo – è stata indicata persino l’Italia.

Nel frattempo, Zhang Zhan è apparsa su una sedia a rotelle davanti al tribunale che l’ha condannata. E, anche in questo caso, è impossibile capire se ciò sia dovuto a uno sciopero della fame che l’ha gravemente indebolita, oppure ad eventuali torture subite nei mesi di detenzione. I quesiti posti da alcuni diplomatici occidentali per accertare la verità non hanno ottenuto – come sempre, del resto – risposta.

Il canale YouTube e l’account Twitter della coraggiosa attivista, che erano divenuti un punto di riferimento per tutti coloro che volevano avere notizie di prima mano da Wuhan, sono stati puntualmente oscurati. E non hanno avuto sorte migliore altri blogger meno famosi che avevano cercato di diffondere informazioni su un’epidemia che, in quei giorni, sembrava circoscritta al contesto cinese. Non era insomma ancora percepita come pandemia a livello globale.

Zhang Zhan è stata condannata a quattro anni di carcere dal tribunale di Shanghai, in base a una legge quanto mai vaga sulle “offese contro la quiete pubblica”. Tale legge è in realtà uno strumento utilizzato molto spesso dalle autorità contro i dissidenti di ogni tipo, e in particolare i difensori dei diritti umani (che nella Repubblica Popolare non hanno il benché minimo spazio di manovra).

È la stessa strategia utilizzata contro i leader democratici di Hong Kong, ma adottata anche in altre parti del Paese ogni volta che qualcuno mette in dubbio l’autorità dello Stato e del Partito Comunista, che in Cina sono la stessa cosa.

La grande colpa di Zhang Zhan e di altri attivisti è aver revocato in dubbio la narrazione governativa delle origini e degli sviluppi della pandemia, fornendo notizie alternative. E si tratta ovviamente di un peccato mortale agli occhi delle autorità.

Queste ultime sono infatti impegnate in una massiccia operazione propagandistica volta a convincere l’opinione pubblica mondiale che in Cina il virus è stato definitivamente sconfitto. Di qui le immagini di enormi folle di persone, in genere senza mascherine protettive, che si accalcano sulla Grande Muraglia e in altri luoghi simbolici della storia cinese, come per esempio Piazza Tienanmen.

E, ancor più importante, la diffusione di notizie estremamente positive circa la ripresa economica del Paese, con un Pil di nuovo in grande crescita e l’obiettivo sempre più ravvicinato di rimpiazzare gli Stati Uniti come prima potenza mondiale. Approfittando anche del fatto che, dopo le ultime elezioni, gli Usa stanno attraversando una fase di debolezza.

Può anche essere vero, come molti sostengono, che la Cina non è più un Paese comunista, nel senso in cui lo erano nel secolo scorso l’Unione Sovietica e i suoi satelliti e, ai nostri tempi, Cuba e la Corea del Nord dominate dalle dinastie Castro e Kim.

Eppure, l’abilità propagandistica è esattamente la stessa a Pechino, a l’Avana e a Pyongyang. Funziona sia all’interno per convincere i cittadini di vivere nel migliore dei mondi possibili, sia all’esterno, dove la crisi americana e, in senso più lato, la crisi del liberalismo procurano ai regimi dittatoriali attenzioni prima insperate.

In Italia è facile constatare come la propaganda cinese, nonostante tutto, funzioni alla grande attirando ammiratori anche nelle forze governative. Ma lo stesso si può dire a proposito dell’intera Unione europea. È un fatto grave e pericoloso poiché la Cina, a differenza della ex Urss, è davvero una grande potenza economica e commerciale, che può permettersi di propagandare all’estero il suo modello con aiuti economici e investimenti mirati. È auspicabile, prima che sia troppo tardi, una riflessione occidentale complessiva su questo problema.

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